martedì 21 febbraio 2012

Si chiama Mondo (Racconto)


“Grazie della penna. Lei va a Venezia per studio?”
Continuo a stupirmi di come il minimo tragitto possa rivelarsi intenso.
“Dovrebbe fare un viaggio simile. Non è poi impossibile, neanche oggi.”

Ho imprecato, stamattina, in stazione a Milano. Una volta che arrivo a bruciapelo e il treno lascia il binario in anticipo, neanche in orario. Regionali. Dovrei piantarla di meravigliarmi. Non sono Shinkansen giapponesi. Nemmeno ho idea di quando potrò fare davvero il paragone, di questo passo.

“Mio fratello ci ha vissuto un anno, io sei mesi. Ho rinunciato alla scrittura dopo i primi cento kanji. Ma ero scusato. Lei cosa fa?”
Rispondo, cortese. Devo avere un’insegna al neon, sopra la testa. “Orientalista Raccoglitrice di Racconti”.
Attiro chi ha a che fare con l’Asia Orientale, il Giappone, o anche solo con sprazzi di mondo. Il mio interlocutore sgrana gli occhi, ma non perché trovi la cosa strana. Più per affinità. Mi rilasso. Sono abituata ad altre reazioni, meno piacevoli. Vai a capire perché.

“Ho approfondito varie lingue. Il francese, ad esempio. Ha mai sentito di questo libro?”
Per tutto il tragitto, il volume che ho iniziato a leggere rimane a pagina 167, tra Marblehead e Salem, Massachusetts. Quello che l’uomo regge è un libro narrato da un giovane africano, naturalizzato francese. Interessante per il linguaggio, pare. Il fascino di una lingua originale. Non conosco quell’idioma, ma posso capire.

“Sia mia moglie che i miei figli, mio fratello e altri. Un po’ tutti ci siamo mossi in vari paesi.”
Qualcosa stride. Dove sia la famiglia originaria è una cosa che non riesco a definire. Qualcosa di impalpabile, mentre la confidenza del mio sconosciuto, il mio ospite, prosegue. Passiamo Brescia, Verona, Padova. Nei suoi occhi scorrono l’Australia, l’Indonesia, il Sud-est Asiatico risalito in anni incerti. Poi la Cina, il Giappone, gli Stati Uniti. Non fermiamoci sull’Europa, diamola per assunta. Conosco persone che mai ho incontrato.

“Son finito a lavorare anche a Marghera. Ho smesso da anni. Ora preferirei diventar scrittore.”
Di certo ha di che narrare, penso. Acquisterei un suo libro, se mi ricordassi il cognome. Ma credo lo riconoscerei in ogni caso. Dei racconti di viaggio. Posso dire di avere un grande sunto della sua opera, allora.
“Non intendo fermarmi, se possibile. Mai.”

Una vita in due ore. Non voglio interrompere, su di me minimizzo. Gli imprevisti del mattino sfumano in un bagaglio cosmopolita come pochi. Io sono ferma, seduta in treno. Al contempo, vengo portata all’altro capo del mondo dalle sue parole.

Non ricordo quando l’abbia detto. Di tutti i suoi racconti, ho memorizzato sprazzi. Dovrei imparare a segnarmi subito le cose che lasciano un segno.
“Basta capire che la nostra società, ormai, non è più Italia, Germania o Europa. Oggi si chiama Mondo.”
I miei viaggetti europei vengono ridotti a gite estemporanee, come pure quello a Shanghai. Ma non mi infastidisce. La mia prospettiva si allarga, per empatia e non solo. In fin dei conti, sono io quella grata. Nel pomeriggio andrò alla stanza da tè, a bere qualcosa in suo onore.

Perderei il treno altre cento volte, con un estraneo bardo accanto.

lunedì 20 febbraio 2012

L'insostenibilità della Maschera

Carnevale. Essenzialmente, come idea mi piace - il pensiero di potersi sbizzarrire coi travestimenti, senza il giudizio di nessuno a fissare come un avvoltoio la scena; i colori, la fantasia dilagante; l'eleganza o la stravaganza di certe sfilate o persone.

Si tratta anche di un fattore di comodo, legato al permettersi di lasciar andare parti di sè relegate nel resto dell'anno. Qualcuno potrebbe venirmi a dire che, col subentrare di Halloween, avviene più o meno la stessa cosa. No, nè più, nè meno, in tutta franchezza. Un'occasione o per far emergere goticità latente, o per aggregarsi, o per spendere e approfittarne e basta. Ben lungi dall'origine e dalla festa di Febbraio. Non si può dire che con le modalità carnevalesche di oggi non ci sia un sacco di commercializzazione, dietro. Ma alcuni punti saldi permangono nel tempo, nonostante tutto. Paradossalmente, è più sobrio. Soprattutto se messo a confronto con un San Valentino o con un Halloween (ora che ci penso, pure il Natale non scherza).
Mantiene la variabile umana al di sopra di quella oggettistica.
Qualcuno, Wilde o Nietsche (o era Schopenhauer? non ho voglia di controllare), ha detto che dando una maschera fisica all'uomo egli riesca a diventare davvero sé stesso. L'ho sempre interpretata come un lasciare la maschera quotidiana, impalpabile ma al contempo all'occhio di tutti, per indossare quella fisica, concreta, e tramite essa esprimere il proprio carattere liberamente.
Opinione che non per forza dev'essere condivisa, sia chiaro.

In qualsivoglia maniera, tuttavia, ogni anno da quando ho iniziato a frequentare i corsi a Venezia il Carnevale risulta un evento rompiscatole. Per la folla, ovvio, e anche per via di lezioni onnipresenti nonostante tutto. Invidia, già.
Quest'anno me ne starò beatamente in vacanza pure io, complice un calendario sfiancante ma tattico - tutti i corsi condensati in due giorni, in mezzo alla settimana.
Nel mentre mi crogiolo tra fritture ingrassanti e nullafacenza, mi torna in mente l'epoca dei Saturnali, da associare a un primordio di Carnevale. Presente lo scambio di ruoli tra servo e padrone che si compiva in occasione di un determinato periodo dell'anno, nell'antica Roma? No? Sì che io mica ho fatto il classico.
In ogni caso, per un giorno solo ognuno era giustificato a compiere il totale opposto della propria quotidianità, il servo dirigendo e il padrone prestandosi a umili faccende. Credo che il simbolo di ciò fosse l'indossare dei particolari copricapi, ma non ne sono certa (pure qui non voglio controllare).

Ma tornando alla nostra epoca, nell'andirivieni dalla stazione di Santa Lucia alla sede universitaria, più circondiario, ho notato che in linea di massima si possono individuare alcune specifiche categorie di travestimenti:

  1. Maschere "per bene" - quelle che sembrano appena uscite da una sartoria o da un laboratorio costumista, vedi quelle d'epoca o che riproducono perfettamente un soggetto adattandolo a un corpo. Una delizia per gli occhi.
  2. Maschere "fai-da-te" - chiaramente casalinghe, ma non per questo prive di fantasia e impegno; anzi, forse più riuscite dei costumi da "scena".
  3. Maschere "scialle" - fatte tanto per, vuoi che si tratti solo di una faccia dipinta, di un cappello buffo, una parrucca o una maschera alla "veneziana" (di quelle fatte apposta per comprarsi i turisti) e/o un mantello (pur elaborato, talora).
  4. "Costum-maschere" - Gormiti,Winx, Ben10, insomma quelle schifezzuole là che si fanno mettere ai figli per mancanza di voglia di fargliele (comprate senza tante storie), se non per puro sadismo.
Dopo questo elenco, ci sono anche altri punti da specificare, riguardanti però le persone dietro gli sgarruffamenti vari:
  1. Festosi - sentono l'aria della festa, partecipano, fanno tutto nei canoni stabiliti. Maschera, partecipazione ai carri, foto e via dicendo. Sostanzialmente? Una palla. Ordinari da far schifo.
  2. Esaltati - partecipano perchè è un'occasione ove far casino. Nulla a che vedere con le maschere, solo cose di circostanza. Metterli a spaccar vetrine fa lo stesso.
  3. Cosplay - nel senso vero del termine, non quelli a casaccio. Prendono un personaggio che amano, lo riproducono su di sè e si immedesimano. Spettacolo.
  4. Genitori - salvo incroci con altre categorie d'individui, accompagnano i figli. Punto.
  5. Figli - ci si maschera, si fanno scherzi, si fa casino. Più che sufficiente per convincere un bambino a vestirsi da puzzola. O altro.
  6. Spensierati - li preferisco, insieme ai Cosplay. Si mascherano tramite fai-da-te avanzato, di solito, ed esprimono sè stessi fregandosene dell'altrui opinione. Li potete trovare in gruppetti di Drag Queen, costumi di cartapesta enormi a forma di Sushi, con qualche maschera a ricambio che cantano canzoni tradizionali di non si sa bene quale paese in treno.
  7. Spettatori - fanno quel che fa uno spettatore, che forse non può o non vuole mettersi in maschera. Osservano. Amano osservare.
Lo scorso anno ero alla categoria 7, il martedì grasso. Ho visto un po' di tutto, senza poter, ahimè, intervenire. Questo 2012 temo che farò ben poco, ma pazienza. Darò sfogo in qualche video.
Ancora 32 ore e poi si va in Quaresima.
Selah.

domenica 12 febbraio 2012

Coi palmi sulla roccia umida





Con calma riprendo a scrivere. Credo.
Ma in qualsivoglia modo, lo faccio coi Garbage di sottofondo, anche se non hanno alcun nesso con il momento attuale. Just to make you aware of it.

Mi è capitato, questo pomeriggio, di mettermi a palmi stesi sul pelo dell'acqua presente in vasca - adoro stare a mollo e pensare nel frattempo ai cavoli miei, per quanto assurdi o sconnessi dalla totalità delle riflessioni diurne, sì; ergo meglio il bagno che la doccia.
In ogni caso, l'appoggiare i palmi alla superficie dell'acqua è un atto che mi piace ripetere quando sono nei pressi di un ruscello, del mare, di una fontana (no, non degli abbeveratoi per le vacche in montagna).
Non c'è una ragione precisa del perché lo faccia. In parte perché lascia un senso di distensione e controllo.
Ripetere questo gesto esatto e delicato comporta un fastidio non indifferente quando, per il moto ondoso o il suo scorrere, l'acqua finisce per esondare dall'immaginario limite di pochi millimetri in zona impronte. Non voglio bagnarmi i dorsi, ho appoggiato solo e unicamente i palmi, miseria ladra. Se avessi voluto lavare o intingere le mani, le avrei cacciate sott'acqua.
Snervante, fatto snervante che si ripete. Pare riflettere un nonsisachè più sotto, vai a capire. O meglio, credo anche di aver colto il nesso tra quest'abitudine e il vasto archivio di dati (pieno di ragnatele) nel reparto emozionale del mio cranio. Tuttavia non riesco a delineare cosa, nella fattispecie, stia a simboleggiare l'acqua che straborda.
Sono conscia di quando avvenga, quando qualcosa fuoriesce dalle barriere che credo di aver solide e ferme. Mi infastidisco parecchio, anche, per questo. Ma cosa sia a darmi tanto sui nervi mi è oscuro. O annebbiato. O forse sono io che mi rifiuto di attivare gli antinebbia, chissà.

Quindi, iniziamo a poggiare i palmi su superfici con un velo sottile d'acqua, tipo le rocce umide. Chissà che dai pori filtri l'acqua, assorbita molto lentamente e così assimilata. Certo, le iniezioni funzionerebbero pure meglio, ma sempre acqua è. Poi sono refrattaria agli aghi, se non strettamente necessari - e anche quando lo sono, ad essere onesta.
Sì, inizierò a palmificarmi sulla roccia bagnata.
Intanto, dai Garbage sono arrivata ad Adele.
Frrrrt.

L'acqua fa vivere e tutto dipende dall'acqua.