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lunedì 9 dicembre 2013

Chi ha sputato nel piatto di fagioli?

"Sai, avremmo dovuto prendere uno di questi taccuini e fare una specie di diario di bordo, fin dall'inizio."Nel dirmi questo, qualche giorno fa ai Weihnachtsmarkt, la mia coinquilina non aveva tutti i torti.

Sono circa due mesi che non scrivo sul blog. Il mio arrivo qua precede l'ultimo post di una manciata di giorni.
Non è che abbia qualche strano blocco dello scrittore. Ho creato tre racconti in italiano, un testo in giapponese, sto preparando una presentazione in tedesco di cui mi devo prima fare uno script, ho trovato una tematica specifica che probabilmente porterò a Tesi, sto lavorando su due esami da non frequentante e su due papers, ho pronto il canovaccio di un video e ho vari racconti in sospeso.
Mi sono anche premurata di tenere aggiornate un po' di persone - oralmente, via skype, via social.

Sta andando bene. Dico sul serio, anche se faccio fatica ad adattarmi al sistema locale e alla mescolanza di lingue, sto cercando di adattarmi al meglio e il metodo mi piace. Ho alcuni problemi ancora con la burocrazia e con dei corsi in Italia, ma si sistemeranno. Studio e incontro persone. Tante, varie, belle. Raccolgo storie, raccolgo esperienze e caratteri senza i quali questo periodo non sarebbe stato uguale.
Sono passata per Francoforte, Karlsruhe, Mannheim, Stoccarda, Esslingen, i dintorni di Heidelberg oltre alla città stessa.
Mi metto in gioco. Non per questo mi scordo del punto da cui sono partita.
Ho perfino previsto un ritorno a casa per Natale, fuori programma. E ad essere sincera, sono un po' pentita del fatto di rimanerci appena una settimana. Ma mi aspetta un Capodanno con Erika quassù. Mi verranno a trovare altre due persone, nel frattempo, Alessia la prossima settimana e Miriam a Gennaio.

Rimane qualcosa che non va.
Non è il posto. Non è la gente. Non è lo studio.
In sostanza, è una cosa tra quelle che temevo accadessero. Sento di esser stata messa da parte.
Il che è buffo, da un certo punto di vista sono io ad essere partita fregandomene di tutto e tutti, così, per un anno - dieci mesi, quel che è.
In molti si sono raccomandati, "Non scordarti di me, eh!". Seems legit, io mi creo nuovi contatti qui per non essere un'isola, quindi viene automatico pensare che tutto il resto non mi interessi. Lo capisco, davvero. Ciò non giustifica, dall'altra parte, un comportamento analogo. Qualcuno ci scherza sopra, a riguardo - ma normalmente, si tratta di persone che sento regolarmente e che sto apprezzando sempre di più per questo.
Onestamente? Ci sto provando.
Per quanto possa esser dura, non sono in capo al mondo e anche se mi è impossibile esserci fisicamente per certe cose, continuo a pensarci, a farmi venire in mente persone che hanno caratterizzato la mia vita finora, a riti quotidiani e settimanali che non sono più la mia norma e la cui assenza ha sostanzialmente modificato il mio stile di vita in appena due mesi.
Non sarò costante - la vedo dura, tenendo conto di tutti i fattori, è naturale non avere gli stessi riflessi e la stessa prontezza che a "casa". Però almeno ci penso, ci provo. Perchè devo essere solo io a prendere l'iniziativa? Perchè io sono una e gli altri sono tanti, quindi l'una isolatasi dalla massa è quella che deve fare il maggiore sforzo? E ripeto, l'ho fatto.
Tant'è che, comunque, la massa mi ha tenuto in conto per ben poco, facendo emergere probabilmente quei pochi che vogliono ricambiare lo sforzo, per quanto soffrendo la distanza - e a questi pochi, che hanno sopportato papiri via messaggio o via mail, ore infinite di conversazione tramite uno skype che sembra intenzionato a riavviarmi il pc almeno tre volte per sessione, va il più grande e sincero affetto che la mia me delle 3.30 del mattino sia in grado di produrre (vi voglio bene, sappiatelo).
I restanti forse ci hanno provato, ma con così poca convinzione che il tentativo è sfumato nel corso delle prime settimane. Passato ottobre, passata la festa. Basterebbe un messaggio a caso, come fa qualcuno, che lascia delle chicche in giro per le bacheche che apprezzo tantissimo, pur nella loro essenzialità.

Sarà per questo che non nutro un così grande interesse a rendere nota ogni cosa al "pubblico", se c'è mai stato. Se qualcuno vuole davvero sapere per filo e per segno le cose, basta chiedere. Ma anche no, suvvia, cosa pretendiamo. Sono via, quindi ho già dato tutto quello che potevo dare. Non servo mica.
Tanto che me frega, a me. Tanto, son qua pei cazzi miei, se voglio mi devo muovere io. Tanto si sa che è così.
Tanto poi mi abituo, no?
Certo.
Tanto poi mi abituo.
Tanto.

Grazie. Danke. Thanks. Gracias. Obrigada. ありがとう. 谢谢. Merci. 감사합니다. Tapadh leibh.
Spero il senso di sarcasmo riesca a filtrare attraverso tutte queste lingue.

mercoledì 11 settembre 2013

# Chiamata in Attesa #

Le domande mandano a male la gente.
"Ma allora, ci hai parlato con Lui?"
Certo che ci ho parlato. Non sono andata in Brasile a lavorare, divertirmi e basta.
Il punto è vedere, effettivamente, quando posso agire. Non posso tenere in attesa tanto a lungo un simile richiamo.

Mi rendo conto che il mio essere in viaggio persiste e che difficilmente si esaurirà di qui a breve. Chiariamoci, non che mi dispiaccia avere una vita continuamente orientata al movimento. Dovessi fermarmi del tutto, forse, farei prima a morire. (la drasticità fatta frase, n.d.me - vedi anche il post precedente)
L'unica è abituarsi all'idea. Ho progetti, in testa, sulla cui fattibilità mi interrogo. Eppure, in qualche modo, penso finalmente di aver trovato quelli giusti. Dovrò cambiare, per attuarli, cambiare non poco.
Il primo passo si compie con questo anno accademico agli albori, mentre ancora tento di concludere degnamente una sessione finora insoddisfacente. Sia che mi laurei entro il 2014, sia che finisca nel 2015, a tutti gli effetti è l'ultimo anno di studi. Non mi piace l'idea di una carriera accademica, non fa per me. In fondo, ritengo sia piuttosto improbabile che mi venga anche solo proposta da qualcuno, tanto ne sono distante.

Image by Wesley Martinez
Dopo l'esame di venerdì 13 (amo questa data), non avrò a che fare con Ca' Foscari che per questioni burocratiche, un paio d'esami da non frequentante che darò tra un anno e qualche lezione di sfuggita prima della partenza. Sto salutando persone che hanno costituito la mia normalità, nella vita quotidiana e negli ultimi quattro anni. Di questi, chi va oltreoceano, chi lascia, chi si trasferisce per studio in altri luoghi, differenti dalla mia meta.
Il 30 settembre, ufficialmente, partirò per la Germania.
Il mio anno sabbatico.
Per un'espressione simile, non intendo affatto il "tutto pacchia, niente studio" a cui di solito viene associato l'Erasmus dai più. Mi riferisco a un anno in cui il mio obiettivo sarà l'assimilazione di due o più lingue, il raffronto con un diverso ambiente e il tentativo di sopravvivere con le mie forze (e, ahimè, le finanze ancora non del tutto mie).
Niente impegni particolari pregressi, niente associazioni, niente compagnie note, niente di niente.
Altolà! Non vado in clausura, sia chiaro. Vado solo a modificare fortemente il mio stile di vita, si vedrà poi se in maniera temporanea o decisiva. Io, dal mio canto, spero proprio di trovare quell'autonomia e quel distacco da cose e persone di cui ho bisogno, per capire cosa fare di me appena dovrò tornare in patria.
Soprattutto, l'intenzione è di scoprire la strada più adatta per compiere quello che ho in mente, senza danneggiare nessuno, senza più trovarsi a chiedere sostentamento perché questo mondo mi chiede di investire monetariamente sul mio futuro, se voglio anche solo nutrire la speranza di averne uno.

Idee. Quelle cose su cui mi mettono sempre più in guardia i "grandi", perché continuare a illudersi fa male e presto qualche ginocchiata sulla schiena mi arriverà, con il peso della realtà.
Idee. Ce ne sono a iosa, tutte orientate verso un punto preciso.
Ci arriverò. Non so come, non so quando; ma confido che ci arriverò.
E tirerò su quella cornetta.

venerdì 12 luglio 2013

In Viaggio

Presumibilmente, questo è un blog bipolare.
Come il canale video. Va e viene così, a ispirazione. Ma dopotutto, non penso proprio che scrivere debba essere una cosa forzata. Non sono una scrittrice, ne ho avuto la comprova pochi giorni fa davanti a una persona dalla fantasia encomiabile, in grado di creare storie dal nulla in tempi stretti. Io non ne sono in grado. Vado a tratti. Talora mi sfogo per ore, stendendo e correggendo brani, racconti, poesie, robe non altrimenti meglio definibili. Altre volte passano mesi tra una fase di creatività e l'altra.

Morale: non pubblicherò mai nulla, se non mi viene assegnato.
Ragion per cui tesi e ricerche per esami non mi spaventano affatto. Sono parecchio indietro con una tesina da preparare per un esame opzionale, da non frequentante, sul tema del razzismo trans-pacifico tra USA e Giappone. So cosa fare, ma aspetto, sapendo di produrre al meglio quando avrò la mente più libera. Il 13 settembre è ancora distante.
Idem con patate e rucola per un saggio/racconto/concorso svolto il 1° luglio: mi sono presentata a Venezia, sotto antibiotici e in vista di ben due partenze nel giro di dieci giorni per svolgere un tema di matrice Erasmus, solo per competere a livello nazionale con chissà quanti altri pretendenti delle due borse di studio da 500 euro. Il tutto senza preparazione alcuna, senza dizionario, senza alba di possibili tracce subodorate. Così, all'acqua di rose. Finendo poi per scrivere un racconto.

Fatico a capirmi, in senso lato.
Fatico a capire perché a casa non mi sento più a casa.
Fatico a capire perché dico di amare la lettura e la scrittura se, ora come ora, sono fattori parecchio messi al patibolo nel mio immaginario personale.
Fatico a rendermi conto di essere una persona ufficialmente in viaggio, che si sente più a suo agio e più presa in considerazione in ogni luogo tranne che dov'è sempre stata.


Sto notando che, appena prima di partire, non ho il senso della partenza, almeno non in modo così accentuato e non negli ultimi tempi. Ero eccitata all'idea di partire per Shanghai, tre anni fa (oh cielo, son già tre anni), come lo ero prima di tornare in Irlanda per San Patrizio, sempre nel 2010.
Più o meno è da allora che non mi muovo all'estero, escludendo brevi tappe in Slovenia-Austria, alle quali però posso dire di essere in qualche modo abituata. Tagliamo fuori anche quelle due volte che ho accompagnato o sono andata a prendere mia cognata e i bambini in Germania.
Gli ultimi tre anni sono rimasta qui, perdendo come non mai il senso dell'altro. Non dello "straniero" e basta, chiariamoci. Dell'Altro, quello con la A maiuscola. Mi sono man mano atrofizzata nelle relazioni.
Non fosse stato per alcune parentesi che mi hanno smossa, sarei totalmente apatica, a forza di soffocare emozioni non corrisposte o tentativi di approccio verso un qualsiasi prossimo messi a tacere.

Le parentesi in questione mi hanno, per così dire, salvato. Momenti di aggregazione, momenti di confronto, momenti che sono culminati in Campiscuola estivi, di una settimana al colpo tra Giugno e Luglio assieme a X giovani e un centinaio di ragazzi, delle più varie età.
Banale? Mah, per qualcuno forse. Non per me. Non credo siano una dimensione scontata. Vero, faccio animazione in parrocchia e professo un certo Credo. In più, ho aspettato ben più del dovuto per aderire a una simile iniziativa estiva. Ritengo sia un'opportunità da non sprecare, tuttavia. A scanso d'equivoci, finora ne ho fatti tre, uno per estate, dal 2011 incluso. Il primo è sempre il primo, il secondo aveva un che di sospetto nei ragazzi, il terzo... Beh, il terzo è il terzo, forse più del primo.
Non mi sto spiegando, no. Mettiamola così: prima dei Campi del 2011 e del 2012, ero oltremodo preparata, pronta a tutto, mi ero assestata psicologicamente per l'esperienza, tesa peggio di una corda di violino in una composizione di Béla Bartók (oddio, reminiscenze).
Quest'anno no. Niente, ma proprio neanche l'ombra di uno stralcio di consapevolezza del fatto di dover andar su in montagna con 91 ragazzini delle Medie e altri 11 educatori, più Capocampo e Capocasa.
[starò parlando aramaico, per chi non conosce il sistema, ma reggetemi il gioco]
Ciò non vuol dire che non sia andato bene. Anzi, se posso azzardare la combinazione di persone che si era creata penso fosse la più efficiente, efficace e bella degli ultimi anni. Davvero, gente spettacolare che mi ha fatto commuovere come non avrei mai pensato.
Forse le mie percezioni si stanno distorcendo? Chi lo sa. Fatto sta che, anche adesso che sto per partire per il Brasile, con 20 giorni di servizio per la GMG con il Papa e un gruppo di circa 25 giovani da tutta Italia, non mi sembra di essere davvero sulla porta di casa, nuovamente, nel giro di dieci giorni.
Spero sia di buon augurio, come lo è stato per il Campo.

Non so se ho fatto il punto della situazione. Non credo nemmeno il mio obiettivo fosse veramente trovare un punto, sempre che ci sia.
Sono più in crisi per il fatto di dover partire 10 mesi in Erasmus per la Germania che dall'imminente volo transoceanico. In crisi per quel che ho costruito finora, in crisi per quel che lascio in casa e fuori. In crisi per il dubbio che si sta insinuando in me, che mi mette davanti alla possibilità di non essere davvero in grado di vivere da sola.
La prova del nove, insomma. Mi trovo davanti a due occasioni che mi chiariranno una volta per tutte come entrerò nel mondo. E no, considerato cos'ho in testa per il post-lauream, non credo di esagerare. Per nulla.
Spero solo che tutto l'affetto raccolto nell'ultima settimana, a forza di abbracci e nostalgia, non vada perduto, accompagnandomi nei passi successivi.

Crossing fingers.
Até logo!

mercoledì 8 maggio 2013

Soundtrack

« L'orecchio è un punto debole. L'assenza di palpebre ne aggrava una deficienza: sentiamo sempre quello che vorremmo evitare di sentire, e non sentiamo quello che ci serve. Siamo tutti duri d'orecchi, perfino chi ha l'orecchio assoluto. La musica ha anche la funzione di illuderci di dominare il più sgangherato dei sensi. »
Image by ohsoabnormal
Non credo di essere un'esperta in fatto di musica.
Ciò non vuol dire che io non ascolti musica, sostanzialmente direi che mi piace, se non che la amo. Anche se amo è un po' forte, come termine. Ma ne ascolto.
Se si pensa che le due cose vadano a braccetto, tuttavia, immagino si sia in errore. Esiste una vasta terra franca tra l'approfondire nei dettagli qualcosa e appassionarvici. Può essere che si sappia un argomento a menadito e che tuttavia ciò vada contro il nostro gusto personale, come che si riesca ad adorare qualcosa senza saperne definire una mezza caratteristica. Più raramente, alcuni fortunati adorano senza riserve quello che, tra il resto, conoscono fin nei più reconditi meandri.
Siccome, nell'ambito musicale, quest'ultima porzione include un approfondimento tecnico niente male, io preferisco passare il testimone a qualcuno di più motivato della sottoscritta.

A costo di ripetermi, a me la musica piace e arrivo ad adorare determinate melodie, ripetendole tra altoparlanti e auricolari fino allo sfinimento, se sono dell'umore. Ma così, su due piedi, non saprei definire cosa esattamente vado ad ascoltare in questa o quell'altra situazione, quale gruppo mi attira di più per idee, formazione, gossip, storia, eccetera. Probabilmente, queste ultime cose non potrei comunque dire di conoscerle nemmeno con del tempo a disposizione per pensarci.

Per la cronaca, detesto le monografie. Non mi piace spulciare nella storia personale e nelle vicende di tale o tal'altro artista. Idem per registi o attori, non crediate. Ci sono alcune eccezioni (il mondo Disney, se può contare), senza parlare della letteratura, per la quale ho già una conoscenza lievemente più approfondita. Lievemente. Diciamo che monografie letterarie abbreviate possono anche essere sopportate.
Da tutto ciò, ne consegue che non amo raccogliere informazioni su chi suona i brani che ascolto.
Se ascolto la musica non è per sapere chi c'è dietro, non proprio. Io ascolto perchè mi piace, non per una particolare logica intrinseca. Già ci sono troppe cose che necessitano di logica, ogni santo giorno, tutto il giorno. Se devo pure trovare un qualcosa di sensato nelle melodie che mi attirano non vivo più; mi domando come facciano gli altri, è una cosa che personalmente non mi va a genio. Ognuno ha le sue propensioni.

Ho letto, oggi, un libro di Amélie Nothomb. Ho divorato alcune sue opere, su consiglio di un'amica, negli ultimi giorni, libri che esplorano i cunicoli delle azioni, reazioni e relazioni umane. Quello iniziato e concluso in treno questo pomeriggio è "Diario di Rondine". Il protagonista, dopo una delusione sentimentale, decide di annullarsi sensazioni e sentimenti; la sua emotività repressa trova tuttavia sfogo in esperienze ancora non provate, oltre che nell'assassinio. Nella fattispecie, una cosa riesce a smuoverlo, con la sua dimensione reale e non nostalgica che ricrea: la musica dei Radiohead. Tre album in particolare. Il tutto si somma a un particolare incontro di sguardi, prima di una delle sue numerose esecuzioni come sicario.
Non condivido del tutto i gusti, conosco lo stile Radiohead e posso dire che solo alcuni brani mi stuzzicano. Capisco però la sensazione, ebbrezza post-omicidio a parte si intende. E' una scarica non da poco.

Io lavoro per impressioni sensoriali, emotive. Non posso spiegare perché mi piacciono i maçarons piuttosto che i tortini di riso di Tonolo, è così e basta. Dissezionare un sapore o una qualche percezione di senso deteriora l'effetto che ne riesco a trarre. Preferisco bearmi di quello che ho.
Sheldon Cooper mi definirebbe Hippie.
Io, semplicemente, non mi definisco per nulla.
« C'è gente abbastanza sfortunata da trovare l'amore della sua vita, lo scrittore della sua vita, il filosofo della sua vita, ecc. E' ovvio che diventeranno dei rincoglioniti. A me era capitato di peggio: avevo incontrato la musica della mia vita. » 
 { Brani tratti da "Diario di Rondine", Amélie Nothomb }

mercoledì 12 settembre 2012

Fratture

Quando ci riferiamo alle relazioni umane, spesso la terminologia medica torna utile.
Chiariamoci, io l'ho sempre detestata. Ciò non esclude che io possa apprezzare chi riesce ad averci a che fare; diciamo solo che esiste un'incompatibilità latente tra me e l'anatomia umana.
In ogni caso, è palese che determinate espressioni derivate dalla medicina siano nel linguaggio di tutti i giorni, anche perché ci sono continui parallelismi soprattutto tra le menomazioni della società e quelle dell'uomo - che sia il termine più corretto, poi?

Ad esempio, "influenza" è una parola valida sia per il ben noto virus invernale, sia per l'effetto contagioso di una cosa su un'altra. Ecco, nella mia frase emerge pure "contagio".
Quindi, non c'è da stupirsi che "frattura" venga usato non solo quando un osso va a rompersi, per i più svariati motivi - da una caduta in sessione d'allenamento a una carica di fan accaniti dell'ultimo idolo adolescenziale. Esiste anche come rottura di un qualche solido, oppure nella separazione di un dittongo - detta anche "frangimento", in tal caso (vi prego, fermatemi prima che continui).

image by Jrtippins
Se devo essere onesta, nessuna di queste interpretazioni - difetto da linguista incluso - ha a che fare con la prima cosa su cui si concentra la mia testa se penso alla parola frattura.
Subentra la mia concezione psicologica umana, in questo caso. Se dico "frattura", penso a quando una persona è danneggiata, dal di dentro; mi viene in mente il rumore che un'ipotetica lampadina nella nostra testa, sottoposta a una carica troppo forte di energia, possa produrre in uno scoppio. Focalizzo la dimensione emotiva di una rottura, definitiva o meno, in un rapporto tra due o più persone.
Non sempre ne individuo la causa. Innanzitutto, perché è difficilmente chiaro da dove sia partita la crepa decisiva che inizia a far crollare in pezzi la struttura. In secondo luogo, perché a un certo punto scatta un meccanismo automatico di difesa - soprattutto se la frattura mi coinvolge personalmente - grazie al quale prendo a ignorare la situazione.

Ovviamente, fa parte dell'incostanza umana arrivare a troncare certe relazioni, sia con un atto volontario che anche no. Se parliamo d'essere scostanti, isso la mia bandiera, giusto per far notare quanto sia il mio campo d'azione - o meglio, più che altro di non azione. Vengono a mancare la voglia di fare, la forza di mantenere e curare le cose/persone incluse nella nostra sfera e, ultima ma non meno importante, il senso del portare avanti certi legami di fronte ad apparenti ostacoli fastidiosi.
Di certo, è una cosa meschina. Ma non lo è anche, forse, finire a un certo punto col domandarsi: "Perché frequento ancora questa persona, se a stento riesco ad ascoltare ciò che dice e a malapena ci parliamo?"

Trovandomi nella situazione di non poter più raggiungere una persona come vorrei, perlopiù sentendomi messa volutamente in disparte di fronte ad altri, l'istinto mi dice di ritirarmi. Faccio di tutto per tornare nel mio bozzolo, attendendo qualche rapporto più sano. Di certo, non è un processo facile, ma di fronte a fratture palesi e difficilmente sanabili è la cosa migliore da ambo i lati.
La parte più complessa del tutto è convincere il mio io emozionale in proposito, senza mandarlo a male.

Mi sembra di essere sempre più cinica.
Posso affermare con abbastanza sicurezza, tuttavia, che la responsabilità non è solo mia. In gran parte, certo, lo è. Ma una grossa porzione va mandata a certi individui di mia conoscenza.
Spero solo se la godano senza tante storie.

martedì 17 luglio 2012

Perceptions

If the doors of perception were cleansed, every thing would appear to man as it is, infinite. {W. Blake} 

Sforzarsi di comprendere l'entità e l'effettività di certe sensazioni consuma molte risorse. Soprattutto se i tentativi si rivelano vani.
Avrete provato, di certo, a sondare il comportamento di qualcuno, nel corso della vostra vita. C'è chi è più portato per questo genere di cose, chi meno. Come anche chi riesce a recepire di più quando i fatti sono riferiti alla propria persona e chi, al contrario, li assimila solo quando avvengono nelle interazioni tra altri.
Teoricamente, io sono più propensa a quest'ultima opzione.
Teoricamente.
Perchè quando inizia a rimescolarsi tutto, a livello intellettivo ed emotivo, certe distinzioni non sono labili. No. Direi piuttosto fatte di una sottilissima pastafrolla, di una specie male amalgamata, che finisce col frantumarsi tutta appena tenti di sollevarla dal piano su cui l'hai stesa. Plafff, e via che si sfracella giù. Senza contare che poi ci si va addosso di mattarello, a sfogare la frustrazione per l'opera non riuscita. Sbam!
- Perdonate la metafora dolciaria, ma ho un bisogno disperato di sweets e non ne ho in casa.
Accettasi donazioni. -
Image by InfuzedMedia

Tornando a noi, la prospettiva varia visibilmente in questi attimi di confusione. O meglio, è già variata a priori tanto da mandare i neuroni in pappa, scatenando una guerra civile intestina al cervello tra istinto e razionalità. Avete capito - se non vi è chiaro, è chiaro lo stesso perchè lo dico io.
Se prima eravamo convinti di poter agire a mente fredda di fronte a determinati avvenimenti, spontanei nella natura delle relazioni umane, quando iniziano a intaccare pericolosamente la nostra sfera personale le variabili cambiano a tal punto da spingere l'irrazionalità all'azione. Fermati, porca paletta!
Con l'interessante risultato che non ci si capisce più una bega. Ma di nulla, neanche di quel che prima si poteva dare per assodato.

In tutto ciò, nel gioco di percezioni che si fa battaglia in noi, mentre sfoggiamo spesso e volentieri un atteggiamento affabile e quanto più privo di ambiguità si riesca davanti al Mondo, ovviamente non siamo soli. Nonnò. Perchè sarebbe troppo facile. Perchè se non intervengono terzi a spappolare quel che rimane delle nostre convinzioni non è divertente.
Siamo in un sistema tremendamente aperto, ormai. Isolarsi non serve a nulla. Certo, se taluni individui si astenessero dal complicare il nostro disperato tentativo di recovering (non mi viene il termine italiano) da tali scioccanti esperienze percettive, non ci lamenteremmo. Sia che lo facciano consciamente, sia che ci cozzino contro in modo involontario. Che poi, per me di volontà ce n'è eccome, sotto sotto. Giù, in fondo. Da qualche parte c'è.
Terroristi emotivi: schiantatevi.


Nonsense?

domenica 12 febbraio 2012

Coi palmi sulla roccia umida





Con calma riprendo a scrivere. Credo.
Ma in qualsivoglia modo, lo faccio coi Garbage di sottofondo, anche se non hanno alcun nesso con il momento attuale. Just to make you aware of it.

Mi è capitato, questo pomeriggio, di mettermi a palmi stesi sul pelo dell'acqua presente in vasca - adoro stare a mollo e pensare nel frattempo ai cavoli miei, per quanto assurdi o sconnessi dalla totalità delle riflessioni diurne, sì; ergo meglio il bagno che la doccia.
In ogni caso, l'appoggiare i palmi alla superficie dell'acqua è un atto che mi piace ripetere quando sono nei pressi di un ruscello, del mare, di una fontana (no, non degli abbeveratoi per le vacche in montagna).
Non c'è una ragione precisa del perché lo faccia. In parte perché lascia un senso di distensione e controllo.
Ripetere questo gesto esatto e delicato comporta un fastidio non indifferente quando, per il moto ondoso o il suo scorrere, l'acqua finisce per esondare dall'immaginario limite di pochi millimetri in zona impronte. Non voglio bagnarmi i dorsi, ho appoggiato solo e unicamente i palmi, miseria ladra. Se avessi voluto lavare o intingere le mani, le avrei cacciate sott'acqua.
Snervante, fatto snervante che si ripete. Pare riflettere un nonsisachè più sotto, vai a capire. O meglio, credo anche di aver colto il nesso tra quest'abitudine e il vasto archivio di dati (pieno di ragnatele) nel reparto emozionale del mio cranio. Tuttavia non riesco a delineare cosa, nella fattispecie, stia a simboleggiare l'acqua che straborda.
Sono conscia di quando avvenga, quando qualcosa fuoriesce dalle barriere che credo di aver solide e ferme. Mi infastidisco parecchio, anche, per questo. Ma cosa sia a darmi tanto sui nervi mi è oscuro. O annebbiato. O forse sono io che mi rifiuto di attivare gli antinebbia, chissà.

Quindi, iniziamo a poggiare i palmi su superfici con un velo sottile d'acqua, tipo le rocce umide. Chissà che dai pori filtri l'acqua, assorbita molto lentamente e così assimilata. Certo, le iniezioni funzionerebbero pure meglio, ma sempre acqua è. Poi sono refrattaria agli aghi, se non strettamente necessari - e anche quando lo sono, ad essere onesta.
Sì, inizierò a palmificarmi sulla roccia bagnata.
Intanto, dai Garbage sono arrivata ad Adele.
Frrrrt.

L'acqua fa vivere e tutto dipende dall'acqua.

giovedì 17 novembre 2011

Questione Di Tatto



{Posted on 11/09/11 at http://myworldmylife.splinder.com/ }

Fáilte.

Ritorno dopo lunga riflessione e immensa pausa, lo so.
Ma in ogni caso, torno alla ribalta con questioni impellenti, quantomeno per me.
Potrei tirare in ballo il fatto che oggi è l'11 settembre, decennale delle Torri Gemelle oltre che compleanno di circa tre o quattro persone a me note. Forse quattro, non son sicura. Potrei altresì fermarmi a vedere come si stia evolvendo il mio cammino formativo personale, o come la mia carriera universitaria stia vivendo un momento chiaroscuro, quasi quanto le mie abilità scrittorie - messe peggio, oserei dire.
Ma no. Perchè fermarsi su cose tanto banali?

Soffermiamoci su qualche elemento particolarmente interessante. Ad esempio, perchè il tocco è galeotto? Mi spiego: io sono una persona che pone in una luce importante il contatto fisico. Lo vivo come momento di comunione con l'altro, per cui prima di arrivare a tanto ho bisogno di percepire quantomeno una sintonia apprezzabile. La cosa riesce meglio con certe ragazze, piuttosto che coi ragazzi. Questo presumibilmente per varie pare mentali riguardo al mondo maschile, mai sopite da che adolescenza fu. Discretamente comprensibile.
Esistono ometti il cui contatto ormai mi vale meno dell'acqua calda - anni di vicinanza aiutano. Esistono ragazze che, pur se note da poco, sono particolarmente tendenti alla vicinanza materiale, tanto da farla sembrare una necessità anche a me, empaticamente, quantomeno con le loro persone. Altrettanto, ricerco il contatto con chi pare averne assolutamente bisogno, anche se privo del coraggio di esporsi per primo, tanto che comunemente è l'altro che poi si abitua alla cosa - e qui la differenza uomo-donna ha poco rilievo, seppure ovviamente mantenga certe riserve verso l'altro sesso. Prima o poi le leverò.
Sostanzialmente, il fattore tatto è come il fattore C, ovvero va molto a momenti. Da quelli in cui non mi staccherei più da una persona, al totale opposto - in questi, se qualcuno osa toccarmi, potrei violare il mio status d'immacolatezza solo per staccargli la testa a morsi. Il che, umanamente parlando, si riduce ad allontanarsi materialmente dall'individuo, o scrollare di dosso con una certa stizza qualsiasi cosa mi stia sfiorando che non rientri nella mia personale sfera. Ultimamente, ho affinato la tecnica di autocontrollo, tanto da attuare il mio obiettivo con la più delicata possibile nonchalance. Incrociando le dita, l'altro non se ne dovrebbe rendere conto, o almeno non tanto da farmelo notare.
Lo stesso avviene quando qualcuno ricerca fin da subito un approccio fisico. Se ci limitiamo a presentazioni, due baci sulle guance e via, ce la posso fare. Sono programmata ad accettarlo (cielo, sembro una specie di automa). Se dopo cinque minuti stringi manina, ti appoggi addosso, mi scrolli amichevolmente eccetera eccetera, sappi che non sei nelle mie grazie. E soprattutto non ci entrerai solo perché tenti di fare il/la simpatico/a per via di contatti puri e crudi di questo genere.
Nnnnnno. Immaginati di avermi davanti, di parlare con me faccia a faccia; se ancora non comprendi, leggi il labiale: "Nnnnnno". Punto.

La traccia tattile di una persona rimane addosso più di quel che un individuo comune si immagina. Per "individuo comune", intendo chi non si cura troppo di ingorghi mentali quali i miei. Gente normale, apparentemente - ma non sostanzialmente - come me. Se la sensazione al tocco è quella che si ottiene con una qualsiasi nuova conoscenza o persona nota, ci si può non fare caso.
I problemi essenziali iniziano a sorgere quando si rileva un'impronta particolare. Essa lascia una strana impressione, tanto che può arrivare a creare due reazioni distinte: il fastidio da una parte e la nostalgia dall'altra.
Ovviamente, esistono le mezze vie, sane o meno, individuabili in cose come sentirsi in maniera obsoleta dopo il contatto, piccoli formicolii insistenti che lanciano segnali a intermittenza al cervello, e via dicendo. Le due reazioni essenziali consistono appunto nel fastidio, ovvero desiderare che quel contatto non sia mai avvenuto, o contrariamente nella nostalgia, volere nuovamente quel contatto, consci di quanto la nostra concezione ci imponga di rispettare le sfere personali e non sembrare maniacali.
Vivendola come la sottoscritta, la testa inizierà a non stare più dietro alle questioni da risolvere in merito.
Se provo fastidio, quale è mai la ragione, come posso risolvere la cosa, perchè non posso conoscere o simpatizzare comunque con questa persona senza avere il pensiero fisso di una pessima sensazione iniziale?
Se invece la cosa è volta alla nostalgia, cosa può significare per me una scarica simile, perchè non posso partire da un semplice grado di conoscenza senza il preconcetto che ci sia stata una qualche sorta di scossa, di legame istintivo derivato anche solo da una semplice stretta di mano?
Non che ci si salvi dalle mezze vie. Son problematiche anche quelle.
Si tratta di cose non semplici da gestire. Uno può pretendere che non sia successo nulla, per non impazzire dietro a sensazioni che lo distrarrebbero troppo, come pure pretendere in certi casi che il sentore di un qualche cosa ci sia stato, per autoconvincersi della presenza di un legame, negativo o positivo che sia.

Essenzialmente intoppi mentali, ma di quelli seri temo. Uscire da schemi di questo tipo non è facile, quanto non lo è rimanerne dentro. Si tratta di una sorta di circolo vizioso, in cui si deve sperare che le impressioni tattili siano solo leggere, quindi facilmente interpretabili, sviluppabili e manovrabili. Hai una sensazione carina? Bene, vorrà dire che tenterai una relazione buona. Ne hai una non tanto positiva? Altrettanto; cerca comunque di mantenere un tuo equilibrio relazionale, magari evitando di farti coinvolgere in cose che non reputi affini a te.
Se le impronte del tocco altrui si avvinghiano in modo forte, ossessivo, viene da domandarsi di tutto e di più, finendo col non poter reagire in alcun modo, sentendosi bloccati in una sorta di labirinto di idee, opzioni, pulsioni, nel quale i percorsi stessi sono la relazione te-altro, il centro è l'equilibrio relazionale e l'uscita la fuga a gambe levate, col distacco totale da quel legame. Soluzione drastica e spesso devastante, quest'ultima - decisamente più del doversi raccapezzare tra le siepi intrecciate del labirinto. A meno che non sia la relazione stessa ad essere per noi ampiamente nociva, cosa che si può capire solo dopo lunga e intensa autoanalisi, la fuga sarebbe sconsigliabile.
Solo che neanche rimanere bloccati nelle varie stradine è granchè simpatico. Ma non ci si può fare nulla. Sperare che anche l'altro sia stato in grado di percepire le stesse nostre impressioni potrebbe essere un'opzione, augurandosi che poi intenda collaborare alla risoluzione. Altrimenti, venire a capo da soli di queste sensazioni da tocco è un'impresa piuttosto seria.

Contorto.

La domanda sorge spontanea:
Perchè ho così tante pare mentali?

E Dietro Le Mura, Il Vento

{Posted on 27/05/11 at http://myworldmylife.splinder.com/ }

Avete presente quei bei temporali estivi, di quelli che se non si trasformano in trombe d'aria è già tanto?
Sì, intendo di quelli che ogni tanto lasciano andare grandine. O di quelli che si scaraventano con tutta la loro forza contro le pareti della casa, serrata di corsa lavandosi da capo a piedi per l'improvvisa pioggia sferzante.
Comunque la vogliate mettere, mi instillano una voglia folle di piazzarmi in mezzo alla strada o al giardino a prendermi il fronte d'acqua proprio quando avanza. Adoro osservare l'effetto che fa vedersi correre incontro in un muro compatto la pioggia. Normalmente, per non correre rischi o apparire quantomeno sana di mente, mi limito a fissare il momento dalla finestra. So che arriva, riesco a capire ormai quando bisogna aspettarsi un acquazzone simile. Non saprei mai dire se è il caso che tempesti pure o meno. Ma il genere di storm mi è familiare.
Verrebbe voglia di documentarlo in toto, con qualsiasi mezzo a disposizione. In questi momenti non posso fare a meno di domandarmi come sarebbe trovarsi nei panni di chi insegue i cicloni o i tornado, quei folli a caccia di documentazione chiara su queste immani forze naturali. Arrivo fin a desiderare di provarne l'adrenalina, un giorno o l'altro. Chissà.
In ogni caso, pare che l'estate sia in arrivo.
Non ce n'eravamo accorti dai 30 gradi all'ombra degli scorsi giorni, deh. Manco Dio si fosse messo a fare dell'Italia una bistecca alla griglia.
Ma nel caso foste ancora in dubbio, siamo quasi a Giugno.
E io ho ancora due fottutissimi esami da dare.
D'arvit.
Notte.

Anime Di Vetro

{Posted on 16/12/10 at http://myworldmylife.splinder.com/ }

Ho sentito dire che ogni uomo è un’isola.
Costituzionalmente e di diritto non appartenente a razze, classi o quant’altro; socialmente presente a meno di esser rinchiuso in cantina (opportunità non trascurabile). Esteriormente costituito da un camuffamento comune, per quanto estroso possa parere.
E dentro? Una volta caduta la maschera, se mai essa riesca a cadere, si riesce a rilevare qualcos’altro?

In realtà, non ho nulla che mi permetta di dar fiato a qualche risposta. Ma m’han presentato un paragone di vita interessante. Ognuno nel proprio io è a suo modo solo, per quanto possa ingannarsi socialmente; ogni vaso che costituisce la nostra esistenza può essere fatto di qualsiasi materiale, forma, dimensione, e per quanto noi ci si sforzi nel riprodurre la vita in serie, nessun orcio sarà mai del tutto identico a un altro.

Ma i materiali conosciuti, in fin dei conti, son quelli. Limitati come l’esperienza umana. Prendiamo la creta. Non facile da modellare, discretamente fragile, ma per molti versi i suoi cocci son grossi e facilmente ricomponibili; e poi, come anche l’argilla ci si può lavorare egregiamente. Consideriamo altrimenti il ferro: duttile, forte, risonante; si può fondere e rifondere. O meglio ancora, il marmo, praticamente inattaccabile; salvo grazie a qualche acido o un buono scultore, ma è un discorso a parte.
E potrei continuare ancora con tutti i materiali esistenti. Volete un vaso di diamante? Se riuscite a scolpirlo, ben venga; è il materiale più duro esistente, seppur estremamente raro. La proposta degli ultimi decenni è la plastica, basilarmente sempiterna. Preferite invece un’anfora di carta? Purché riciclabile.. è piuttosto esposta alle intemperie, ma pazienza.
Non è difficile. Ci si riesce in ogni modo a categorizzare, anche costituendo nuove leghe. Quel che esiste è un insieme specifico.

Ma avete mai ragionato sul vetro? Anch’esso è un materiale.
E che materiale. Lo si può soffiare, tingere, modellare, vi si possono incastonare oggetti.. Spettacolarmente particolare.
Col minimo dettaglio riguardo la fragilità: perché il vetro, a differenza d’altro, si potrà riciclare, si potrà raccogliere, si potrà tentarne la rifusione.. ma non si potrà mai recuperare come prima.
Pensateci: la più perfetta, liscia, semplice ampolla; sottilissima e trasparente, la miglior cosa per trattenere fluidi, oggettini, polveri. Beninteso che non sia di fattura mista ad altre materie. Ce l’avete? L’avete visualizzata?
Ora scagliatele contro un sasso. O fatela accidentalmente scivolare a terra da una discreta altezza, basta un tavolo. Migliaia, milioni, miliardi i frammenti che vi vedrete sfrecciare davanti agli occhi, auspicando che non ve ne entrino. Potreste anche tentare, dopo, di ricuperarne i pezzi più grossi, se mai ce ne sono (là son lo spessore e la qualità del vetro a far differenza).
Ma dubito, dubito e perdonatemi se sottovaluto lautamente le vostre capacità, che mai prendiate e raccogliate anche il più piccolo frammento. Eppure, potrebbe essere quella briciola a cambiare tutto il gioco d’equilibri in cui tentate di ricomporre l’ampolla. Anche risoffiando il vetro, si sentirà la mancanza di qualcosa, ed il serio cambiamento dovuto a ciò. La forma, tra l’altro, non sarà altro che copia dell’originale, per definizione imperfetta.
E il disastro maggiore, fisicamente, avviene quando due ampolle si scontrano l’un l’altra; vetro contro vetro. Ne distinguete i frammenti? Seppur anche siano di colori originari diversi, li distinguete al micron? Ne separate esattamente le scaglie infinitesimali, dell’una e dell’altra?

Credo sappiate le risposte. Tuttavia, c’è da notare che nel ricomporre e tornar a soffiare un nuovo vaso da entrambi i tipi di frammenti ne esce un’oncia, un esemplare più grande, diverso com’è ovvio, e perché no, anche più resistente. Unico, al solito, ma di un’unicità che dalla semplice matrice non si sarebbe ottenuta.
Comunque, il vetro permane vetro. Per quanto camuffato da tinte, altre superfici sopra d’esso, o presenza d’oggetti scenici incastonatici ed effetti vari, esiste in quanto vetro. E pur nella sua semplicità costitutiva, è a mio dire il più splendido materiale mai forgiato a storia d’uomo.