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sabato 27 giugno 2015

Cari Visitatori di Expo, lavoriamo (anche) per voi

Torno a scrivere sul blog, dopo eoni. 
Le mie attività degli ultimi mesi si possono sintetizzare con una Laurea Magistrale, l'abbandono di alcune pessime abitudini sentimentali, un periodo di ben meritato cazzeggio e il passaggio da "ohmiodio, ora sono disoccupata" a "trasferiamoci a Milano nel giro di 24 ore e annamo a lavurà".

Alla luce, in particolare, dell'ultimo sviluppo, mi sono trovata catapultata in quell'ambiente prolifico e trafficato di Expo. Ci sono arrivata dopo tutta una serie di peripezie assuntive che non starò ad approfondire, soprattutto considerate le polemiche relative ai giovani scansafatiche su cui i media si sono tanto voluti concentrare (cosa c'hanno guadagnato a diffamare una generazione lo sanno solo loro - forse).

Decumano, Expo Milano 2015
Sorvoliamo sul mio trasferimento nella Big City e sulle fasi di adattamento, guidate dall'ospitalità ad oltranza di una cara amica, l'arrivo di ex-compagne dell'università in quel di Milano a farmi compagnia (sempre per lavoro), espressioni gergali che fatico ancora a comprendere, nonché la convivenza con una persona a me affine e una che, invece, non si sa bene come abbia fatto a sopravvivere da sola finora (a.k.a.: caso umano). Non mi fermerò nemmeno a descrivere l'Esposizione, perché... e che cavolo, per una volta che si fa in Italia potete anche andare a farvi un giro.
L'intento del presente post è giungere, in qualche modo, agli occhi dei visitatori medi, che ogni giorno affollano Expo.

Sì, esimio/a visitatore/trice. Parlo con te, con il cuore da Addetta accoglienza/Hostess di padiglione in mano. Con te che hai tolto un prezioso giorno di ferie al tuo calendario per girare un'Esposizione Universale, fremendo per mille aspettative. Sia che tu sia già passato o che debba ancora pregiare il suolo di Pero-Rho con la tua presenza, di qui al 31 Ottobre.

Voglio dirTi, car* utente, che non ti capisco.
No, davvero. Ho visto talmente tanti modi di essere ed agire da risultarne profondamente confusa.
Certo, non è bene generalizzare; ci sono, come in tutti gli eventi, persone profondamente carine e amichevoli. Per cercare di farle aumentare in numero e diffondere la cultura d'ammmmore tra dipendenti e visitatori, ho pensato a un semplice elenco chiarificatore.
  1. L'Expo è un'Esposizione, come dovrebbe vagamente suggerire la parola stessa. Poiché tale, per quanto possa concernere il Cibo e l'Alimentazione è assai improbabile che funzioni come un evento Fieristico alimentare qualunque, pieno di assaggi e degustazioni. Ce ne sono, ma in misura moderata. Non ad ogni angolo. E soprattutto, io (dipendente) non sono responsabile per la loro assenza. Nè posso cogliere i vostri consigli riguardo al far assaggiare le cose pubblicizzate nel percorso espositivo, non importa quanto vi sembrino invitanti caciotte e sughi.
  2. Expo è un'Esposizione UNIVERSALE. Ovviamente saranno presenti persone di altre nazionalità, sia nello Staff che tra i visitatori stessi. Tenete a freno l'istinto del "OhmioDio, questa persona è DDDDIVERSA, nuocerà gravemente alla mia salute!". Il cannibalismo non è contemplato tra le discipline alimentari qui convenute, nessuno vi cuoce allo spiedo.
  3. Pur essendo un evento universale, non aspettatevi che un membro casuale dello Staff conosca TUTTE le lingue. Se vi spostate all'estero, abbiate la pazienza di scegliere un'interfaccia comprensibile. Noi dello staff non pretendiamo sappiate l'Italiano, l'Inglese va benone, a volte si conoscono anche altre lingue (nel mio caso, Giapponese e Tedesco). Ma se venite da me parlando esclusivamente nella vostra lingua ed essa non rientra nella mia gamma di conoscenza, è inutile che ve la prendiate dopo 5 secondi. Fatemi chiamare un/a collega e risolviamo. (*coff* Francofoni, parlo soprattutto a voi *coff*)
  4. Il "Ma io sono Americano/Tedesco/InserisciNazionalità" non vi dà accesso automatico ovunque. Siete comuni mortali.
  5. Ci sono tante persone, ai tornelli, ed Expo apre alle 10. Se vi presentate alle 10 meno cinque, è ovvio che ci sia già coda, quindi mettetevi buonini nelle vostre file e aspettate il turno. Mai andati a Gardaland?
  6. Se c'è scritto "Staff" o "Accrediti", vuol dire che il tornello è riservato alle persone indicate. Leggere PRIMA di intasare la fila, evitando di scatenare una protesta collettiva al grido di "Ma io ho pagato di più!" (sventolando il biglietto standard).
  7. Il biglietto non include delle consumazioni gratuite. Non è una discoteca.
  8. Scolaresche. Care. Scolaresche. Più siete avanti con l'adolescenza, più devastate. Se un touch screen si impalla, non si risolve certo premendo a caso in ventordici e resettando il sistema, costringendo lo Staff a mille peripezie per sistemare. Dovevate rimanere carini, infanti e coccolosi, voi. Senza andare a sconvolgere l'assetto tecnologico dei padiglioni, né tantomeno a rubare pomelli dai cassetti del Padiglione Zero. Gesù.
  9. Insegnanti di scolaresche che non guardano i bambini e se li perdono per strada, sgridandoli poi quando vengono riaccompagnati quasi in lacrime... Un esamino di coscienza, magari?
  10. Il fatto che una persona abbia un Accredito dello Staff non significa che sia il Conoscitore Universale di eventi e luoghi interni. Quello che sa, sa e condivide volentieri. Evitate di dare dell'incompetente a una persona che non conoscete e che probabilmente è in Pausa o ha appena staccato, ma si è lo stesso fermata ad aiutarvi, solo perchè non può confermare se davvero in Etiopia fanno quella conferenza sul Caffè con TizioCaioFamoso alle 17. Esistono gli Info Point e i Volontari. Più una comodissima applicazione per gli Eventi. E gli aggiornamenti in tempo reale di Sala su Instagram.
  11. Se vi dico "Buongiorno", sarebbe una cosa estremamente carina non ricorrere a tecniche quali: a) Ignorarmi totalmente, senza manco guardarmi in faccia; b) Rispondere "Buongiorno un cazzo"; c) Dire "No no, guardiamo soltanto, veloci veloci" (WTF. Non sto cercando di vendere nulla, io).
  12. Quando chiedete "Ma l'uscita dov'è?", cercate di accettare la mia risposta come buona. Se vi dico che dovete prima passare al piano superiore e SOLO da lì accedere all'uscita, vuol dire che c'è un percorso obbligatorio. Come in tutti i Padiglioni. Non puntate febbrilmente il dito contro l'uscita di emergenza, in fare accusatorio. Chiamasi "D'Emergenza" o "Riservata" per una ragione. E magari evitate di rivolgermi sguardi d'odio, sbuffando e mandandomi in imprecisati Paesi.
  13. (alias 12-Bis) Se vi dico che non si può passare in un certo posto, non fatelo comunque con atteggiamento di sfida e un "Chissenefrega" allegato, perché anche se sono una versione in bianco e nero di Memole tenterò di riportarvi sulla retta via, prima che scavalchiate i divisori. Il karma è una brutta bestia e voi ne avrete presto una nuvola piena sopra la testa.
  14. Se non parlate l'Italiano e io non colgo subito (perchè non tutti hanno scritta in faccia la propria National ID), fatemelo capire PRIMA che io mi lanci in tutta una serie di spiegazioni contorte. Si accettano sguardi smarriti, cenni di diniego, saluti in altre lingue e segnali luminosi. Ancora non mi hanno consegnato la tavoletta per la selezione automatica della Lingua.
  15. Non venitemi a chiedere con fare furtivo "Ma vi pagano? Quanto vi pagano?", perchè non posso rispondere. Magari evitiamo anche commenti conditi di luoghi comuni sui giovani fancazzisti, a voce alta. Così, giusto per tenere moderata la pressione.
  16. Se siete appena entrati e avete già fretta al primo Padiglione, perchè "Abbiamo solo oggi e dobbiamo vedere tutto", io mi metterei già l'anima in pace e mi godrei la visita in tutta calma. In particolare se avete una certa età e lo sprint non è dalla vostra parte.
  17. Alcuni padiglioni sono più frequentati di altri, tanto che prevedono, a volte, dei biglietti gratuiti di prenotazione. In mancanza di essi, c'è la fila. I visitatori sono tanti, ergo è normale che ci sia sovraffollamento. Lo Staff vi fa aspettare per evitare calche e/o perchè è una visita guidata, i commenti offensivi e le sciorinate logorroiche su quanto sia per voi penoso rimanere in fila per cinque o dieci minuti non vi fanno guadagnare terreno, tanto meno delle medaglie.
  18. Sono un Dipendente. Diiiiipendente. Con necessità e voglia di lavorare. Non mi si può ritenere responsabile per le decisioni prese direttamente dal Comitato Expo o attaccarmi perchè ho deciso di partecipare "ad un evento deprecabile, su basi corrotte". Verrebbe da chiedervi perchè siete entrati, se avete una così alta considerazione del luogo e di ciò che rappresenta.
Questo ottadecalogo è ovviamente incompleto, però può già portare a una civile convivenza.
Perchè ho deciso di dirlo? Per lamentarmi?
Nope.
Per ricordarvi che io, insieme al resto dello Staff, pagato, stagista e volontario, sono qui per voi. Sto lavorando al vostro uso e servizio, per potervi permettere di vivere un'esperienza piacevole, non di certo per ostacolarvi. Il rispetto dovrebbe essere una priorità, in questo come nel resto dei contesti di vita quotidiani, unitamente a virtù quali la pazienza e la comprensione. 
Inoltre, sto lavorando anche per me stessa. Perchè voglio fare esperienza, interfacciarmi con un pubblico e approfittare di quest'occasione per crescere professionalmente e personalmente. Perchè, nonostante il calvario dei colloqui, le delusioni, il trasferimento quasi immediato con espiantazione da casa a luoghi sconosciuti, le incertezze contrattuali e tutte le fatiche, sono grata di essere dove sono.
Non pretendo mi stendiate un tappeto rosso davanti, ma che almeno mi si ritenga un essere umano, impegnato a lavorare e non a divertirmi (anche se, per fortuna, a volte le due azioni vanno di pari passo).

Peace and Love <3

domenica 12 ottobre 2014

MemoryTraining - Chapter #5: Il dramma di un Lettore in Viaggio

Image by Kristi (on Flickr)

Il Lettore in Viaggio deve affrontare tutta una serie di sfide.

Ad esempio, cosa faccio, indosso le cuffie con la musica, conscio che i brani potrebbero cozzare contro il ritmo narrativo e darmi sui nervi, oppure sto senza, sopportando le interferenze provenienti da un bambino capriccioso urlante/un gruppo di teenager che produce idiozie lessicali/gente a caso che se fosse stata casa avrebbe fatto un favore all'Universo? Mi estraneo del tutto, chiudendomi in un mondo mio, con il rischio di trovarmi a Timbuctù, senza valigia, dopo essermi congiunto a una carovana di venditori di cammelli?

Ma l'ostacolo più grande è dato da Lei.
LA pagina.
Calato in uno stuolo di Babbani miscredenti che insiste nel chiedere, insulsamente, "Ma perchè ti devi sempre portar dietro un libro?!", il Lettore si allena alla pratica del "Conceal, don't feel, don't let them know" (Elsa docet), reagendo alla storia che ha tra le mani con più o meno malcelate pokerface (ma anche no).
Ma quando arriva LEI, quella particolare pagina, prima o dopo la quale l'intuito letterario suggerisce il disastro emotivo più totale, il "Well, now they know" si affaccia dietro il sedile del treno/aereo/autobus, facendo capolino con il suo ghigno malefico.

Allora, e solo allora, il Lettore in viaggio giunge a una decisione: chiudere il libro e rimandare il fatidico momento.

Perché in momenti simili non si coinvolge solo la pericolosità che l'esplosione del proprio assetto interiore potrebbe avere sull'ambiente circostante, ma anche (e soprattutto) l'importanza del tenere per sé e sé soltanto certi momenti clou di un racconto.
Vogliamo mettere a confronto una simile situazione incresciosa con la libertà di reazione psicofisica che un Lettore può concedersi, faccia a faccia con un libro, in luogo isolato?
Solo lui/lei e quel mucchio di carta stampata (o schermino dell'E-reader, siamo attuali), quel volume che, aperto in quella fatidica Pagina, rimane appoggiato su un letto o una scrivania, mentre il suo proprietario si sbraccia, lo insulta, si dispera, rotola a terra preso da uno spasmo di ilarità, piange rannicchiato in un angolo buio e tetro mentre tenta di farsi consolare dal gatto, che fugge via all'altro angolo della casa mentre il proprietario gli urla, singhiozzando, "Torna qui e amami!".

Quindi, nonostante il richiamo del procedere verso la fine del libro, in attesa del momento propizio in cui troverà il coraggio di fare i conti con sé stesso e la storia con cui, ormai, è in piena simbiosi, il Lettore in viaggio procrastina.
Di norma, iniziando a leggere qualche altro libro. O a scrivere.

sabato 31 maggio 2014

MemoryTraining - Chapter #4: Memory is a tricky thing

(sì, da molto non scrivo, ma sorvoliamo i soliti preamboli)
Image by Madeleine

La Memoria è un fattore problematico, sopratutto se si parla di definirne una collettiva o pubblica.

Tra le prime impressioni che ho avuto, arrivata in Germania, me ne ricordo una precisa, che si è installata nella mia testa quasi fosse un preconcetto. Stando ad essa, i Tedeschi parevano avere seri problemi con tutto ciò che potesse concernere la Seconda Guerra Mondiale, il regime Nazista e compagnia.

Sì, mi sto addentrando in un ambito molto discusso, ma è da parecchio che pondero in merito. Insomma, mettetevi nei miei panni, prima analizzo le questioni identitarie e l'idea di "Guilt" nell'immaginario Giapponese, poi mi trovo catapultata in una Nazione che pare avere simili problemi. Non potevo resistere ancora a lungo.
Quale modo migliore per parlare della questione Memoria di per sé, se non sfruttando questa bellissima collana di Memory Training?

Gli indizi che mi hanno portato a simili considerazioni, nei primi mesi di permanenza ad Heidelberg, sono stati molteplici: Propensione ad evitare discussioni in merito, anche tra studenti (che si spera abbiano un minimo di dimestichezza nel trattare tematiche dubbie); assenza di letteratura specifica in lingua dalle Librerie pubbliche; strutturazione delle sezioni storiche nei Musei o nelle esposizioni in modo da lasciare il periodo bellico sempre un po' opaco.
Certo, questi sono casi abbastanza peculiari, su cui forse mi sono istintivamente voluta concentrare - chiamiamola deformazione personale, mi piace trovare argomenti scottanti nella maggior parte dei contesti possibili, mi stimolano a pensare.
E' vero che pronunciare ad alta voce il nome di Hitler, anche in una conversazione del tutto obiettiva, può far girare tutte le persone circostanti con uno sguardo a metà tra preoccupazione e stupore (tanto che anche scriverlo mi pare un mezzo taboo). Come è vero che la struttura gerarchica stabilita nel periodo Nazista è ancora sottesa nell'assetto istituzionale, in particolare nel sistema scolastico e burocratico - ci sono tutt'oggi tracce e residui dei regimi anche in Italia, Giappone e Spagna, se è per questo.
Vogliamo poi considerare i consensi che sta mobilitando il Partito Neonazista, negli ultimi anni, arrivando anche a vincere un seggio alle Europee?
Ci sarebbero svariati argomenti da citare, a sostegno della tesi secondo cui "I Tedeschi non sono cambiati". Più o meno gli stessi riportati in superficie dal film "L'Onda", nel quale un ragazzo afferma che ormai la Germania ha imparato dal proprio passato, giusto prima che il gruppo sull'Autocrazia di cui fa parte degeneri e confuti una simile affermazione.

Un dubbio, tuttavia, mi si è insinuato col tempo: certo, i crimini compiuti nella Seconda Guerra sono palesi a tutti ormai, ma è necessario continuare a identificare i Tedeschi sempre e solo con questa fase storica? Può essere definito un atteggiamento corretto nei confronti delle ultime generazioni o, in generale, di una Nazione che per la maggior parte sta tentando di fare ammenda da quasi settant'anni?
Cosa è diventata la Memoria per il tedesco medio?

I primi sintomi di questa riflessione sono emersi grazie alla tendenza fastidiosa di certi buontemponi locali nello schernire l'Italia secondo vecchi e tediosi stereotipi.
Io e la mia precedente coinquilina, ancora a Novembre, siamo capitate in RufTaxi con un paio di tedeschi che avevano alzato abbondantemente il gomito nel bere e il cui linguaggio era talmente strascicato da capirci ben poco. Al nostro "Non vi capiamo più, parlate in inglese almeno" e all'affermazione distratta del "No, non siamo inglesi, siamo italiane", la risposta ci ha basito alquanto.
"Ah, venite dall'Italia? Ahah, Berlusconi, Mussolini!!"
Al che, mentalmente, stava scattando la risposta istintiva del "Da che pulpito", trattenuta per evitare stilettate nei calcagni. Rimuginandoci sopra più tardi, mi veniva da pensare, tra me e me: Ma ti pare che un Paese si debba identificare solo tramite esponenti che hanno fatto parlare di sé?
Poi, una lampadina. La stessa domanda era applicabile alla Germania stessa. Tutti avrebbero continuato a vederla sotto una determinata luce, sempre e comunque, almeno in Europa.
Non vi dico la confusione e il groviglio di idee nella testa.
Negazionismo, elisione di dettagli scomodi, stereotipi e colpe.
In tutto ciò, la Memoria pareva sottoposta a un doppio trattamento
Da un lato, c'era la ripetizione spasmodica, tipo mantra, di tutte le macchie che avevano segnato la coscienza collettiva: monumenti, memoriali, libri di testo, Musei specializzati; mesi di istruzione scolastica su cosa sia successo e su come i tedeschi debbano prendersi le proprie responsabilità, fin dalla prima infanzia; targhette in ogni angolo della Germania, da Berlino ai paesi più sparuti, davanti alle case in cui un tempo abitavano persone morte nei campi di concentramento, perlopiù Ebree.
Dall'altro, la superficialità data dall'evitare semplicemente di citare temi anche remotamente collegati alla questione, sorvolando, non parlandone, perchè tanto se ne creerebbero problemi e basta - un'autocensura, se vogliamo darle un nome.
Caso a parte è la minoranza nazionalista, sopravvissuta alla purga ideologica, sulla quale non mi voglio soffermare.

Ecco. Ora come ora, direi che il peso della Memoria è consistente. La sua interpretazione però è molto distressed, tirata e sformata della sua consistenza ideale, in certi casi perfino esasperata.
In questi mesi, ho saggiato il terreno più volte, per capire a chi potevo chiedere un approfondimento in merito. Siamo in Germania, suvvia, parliamo coi diretti interessati.
Facile a dirsi, un po' meno a farsi. Perché in questo insieme di impressioni temi anche di offendere determinati individui, se "pretendi" di conoscere la loro percezione in merito. Una volta mi hanno risposto piuttosto male, con un "Non può andare in giro a fare queste domande!".
Però non demordo facilmente. Ho trovato persone più disponibili, entro l'ambito accademico. E ho avuto dei riscontri molto interessanti. Una volta, c'è stata una chiacchierata in amicizia con un professore brasiliano e dei compagni di corso tedeschi, mentre prendevamo qualcosa al bar, a degna conclusione del semestre.
L'argomento è semplicemente emerso, senza attriti o che. Il corso trattava il Buddhismo nel Giappone degli ultimi secoli, passando anche per la fase Totalitarista.
Ricordo quel che disse una ragazza.
"Voglio dire, è normale che si debba ricordare, è da una vita che ci sentiamo ripetere quanto sia importante ricordare. Ma io, io in quanto persona, lì non c'ero. Perchè mi devo sentire vincolata e colpevolizzata? Quanto tempo sarà passato, sei-sette decadi? La memoria è un conto, ma chi vive ora dovrebbe avere il diritto di poter andare avanti senza un'etichetta derivata da una responsabilità vecchia di quattro generazioni."
I contenuti erano circa questi, il tono totalmente privo di risentimento. Una considerazione pura e semplice, data da una persona estranea al negazionismo, molto diretta e disponibile, che conosce bene la realtà in cui vive e che è stanca di avere a che fare con vecchi sentimenti.
Si potrebbe ribattere, questo è sicuro. Ma si potrebbe anche mettere in discussione la propria visione delle cose, visto che siamo nel terzo millennio e dovremmo aver imparato qualcosa a riguardo della dialettica (giusto un po'), anche se certi elementi tendono a dimenticarsela.
A supporto di questa personale reinterpretazione della Memoria, ci sono state altre persone. Tra di esse una compagna di corso, qualche settimana fa, con cui mi sono persa a chiacchierare del più e del meno, dopo una lezione riguardante il fattore Memoria per il Giappone, messo a confronto con Germania e Italia.
"Non è facile spostarsi per il mondo e trovarsi a nascondere quanto più a lungo possibile il fatto che sei Tedesca. Mi piace qui, si vive abbastanza bene e c'è libertà di espressione. Dover fare a meno della mia identità perchè altrimenti partono tutta una serie di stereotipi è frustrante. Sono la prima a condannare quello che è successo, la mia famiglia ha perso dei membri durante gli anni del Nazismo, ritenuti oppositori politici o magari in ottimi rapporti con persone di origine Ebraica. E sono d'accordo con il prendersi le proprie responsabilità e tutto, ma non è ora di andare avanti?"
Siamo andate avanti parecchio con i discorsi, declinandoli anche al caso Nipponico e Italiano.
Non potevo darle torto. Anche perchè, per quanto in Italia ci sia stata la resistenza, la collaborazione con gli Alleati post '43 e corollari, gli Italiani stessi detengono una buona dose di responsabilità a loro volta, per motivi simili. Dalla nostra prospettiva, si dovrebbe capire cosa comportano certe azioni. Ed è giusto che se ne faccia Memoria, nel limite dell'umano.
Quando la Memoria pregiudica l'autoaffermazione dell'individuo in quanto tale, però, forse diventa un problema. Nella stessa posizione, personalmente reagirei allo stesso modo. Parlerei e discuterei apertamente di quel che è successo, ma allo stesso tempo mi verrebbe spontaneo cercare un modo per liberarmi del peso dato dalla coscienza collettiva, per vivere secondo i miei principi, rispondendo di quello che compio.

Insomma, una questione decisamente contorta e ben palese nella realtà tedesca. Non si sa dove sbattere la testa, non si sa se siamo in grado o nella posizione di giudicare; non si sa nemmeno in che modo si dovrebbe distribuire la colpa o dove la si dovrebbe andare a cercare nella società di oggi.
Forse, il guilt è diventato talmente abitudinario da essere assunto come prerogativa del vivere, in stile Protestante?
Chissà.

For sure, Memory still is a tricky matter.

domenica 2 febbraio 2014

MemoryTraining - Chapter #3: Never-made Travels (or at least, not yet)

Image by Alex Vakulenko
Sono una di quelle persone che adora pianificare. Soprattutto viaggi, possibili o meno.
In realtà, il più delle volte si tratta di mete o percorsi perfettamente fattibili, con un po' di fortuna (in questo caso, monetaria). E sì, so che la carenza di finanze viene annoverata come una delle scuse utilizzate più di frequente per rifiutarsi di viaggiare o per fingere di desiderarlo, mentre invece fa più piacere immaginare le cose rispetto all'agire. Ma nel mio caso ci sono state davvero cause di forza maggiore, che non potevo bypassare.
Ciò non significa che mi sia astenuta dal fare progetti.
I progetti possono sempre essere ripresi in un secondo momento ed è molto probabile che si realizzino in periodi più propizi, soprattutto qualora almeno uno sia già andato a buon fine.
Nel mio caso, questo "uno" è stato il tour dell'Irlanda che ho organizzato nel 2008 con una carissima amica, incontrata nella verde isola due anni prima, giusto in occasione dei miei 18 anni.
Come si dice, le propensioni si scoprono in giovane età e ritengo, nonostante le mie mete siano finora state limitate da molteplici fattori, di essere della tipologia più portata ai viaggi.
Ma torniamo alla pianificazione.

Quando parlo di organizzare un viaggio, non intendo solo con filmini mentali o con pure fantasie. Di norma, prendo in mano tutti gli strumenti possibili e immaginabili perché tal viaggio sia decisamente realizzabile.
Internet è uno splendido strumento, a tal proposito, sempre più rifornito. Partendo dalle informazioni che si trovano online, spulciando un po' ovunque, dall'ultimo dei blogger non calcolati da nessuno ai siti di recensioni su questa o quell'altra meta, si riesce a intuire dove passare e dove non passare, cosa vedere, cosa è meglio prendere in considerazione e cosa no.

Ho iniziato con il viaggio in Irlanda, con quattro punti focali: Cork, Galway, Sligo e Dublino. Già il successivo inverno ero alle prese con altre macchinazioni, ispirata dal fervore di quell'anno.
Piccolo dettaglio: avevo appena iniziato l'ultimo anno di liceo, quindi non è stata una grande idea decidere di tentare un viaggio con duplice meta in due diverse nazioni europee per il ponte del 25 Aprile. Soprattutto considerato che a inizio marzo sarei dovuta partire per la famigerata gita di quinta superiore, da tradizione all'estero, Praga nel nostro caso. Splendida città, ma ovviamente per motivi finanziari e scolastici non potevo azzardare un'ulteriore peregrinazione di quattro giorni di lì a un mese; specie se l'intenzione era di partire da Milano, volare a Dublino, rimanerci fino a un altro volo per Madrid e poi rientrare giusto in tempo per arrivare la mattina del Lunedì a scuola.
Siamone convinte, pure. Il punto è che l'avevo seriamente ritenuto fattibile, avevo esaminato tutte le variabili, visto gli ostelli, le loro dislocazioni, calcolato le tempistiche, il treno che mi avrebbe portato fino a Milano e poi a Linate, il fatto che a Temple Bar quella sera ci fosse un Live importante e a Madrid, un paio di giorni dopo, un Festival di primavera. Tutto, davvero.
Image by Lina Linnarsson
Voglio dire, va bene lasciarsi andare all'immaginazione, ma qua si va leggermente oltre. E quello è stato solo l'inizio. Da allora, periodicamente ho bisogno di pensare a quando-come-dove potrei partire, da sola o in compagnia. Sono stata in grado di coinvolgere anche mia madre, una volta, nell'entusiasmo di un'offerta per San Patrizio 2010 in Irlanda. Ovviamente, una delle cose andate a buon fine, visto quanto entrambe eravamo propense a tale idea. In dieci ore, da quando avevo visto l'offerta a quando ho confermato la prenotazione, ho segnato tutto quello che avrei potuto mostrare a mia madre, quando e dove ci saremmo incontrate con l'amica sopra citata (anche lei coinvolta nel raptus viaggiante), ho trovato un ostello in un quartiere appartato e ho visto tutti i programmi per i festeggiamenti di San Patrizio di quell'anno.
Da allora, i miei piani si sono difficilmente realizzati.
Chiariamo una cosa, ciò non vuol dire che non abbia viaggiato. C'è una sostanziale differenza tra il viaggio organizzato da una compagnia e quello che tu riesci a crearti con milioni di appunti sparsi per sette diverse agende, valanghe di post-it e pagine su pagine consultate online. Il programma che riesco a preparare con le mie sole forze ha tutta un'altra sensazione, nonostante non possa dire di non aver adorato le due tappe extra-continentali a Shanghai e Rio. Sono state esperienze uniche nel loro genere e, dopotutto, sento di essermele guadagnate grazie a certe personali capacità.

Però questa cosa del fare, prendere e partire mi è mancata. Ho cercato di consolarmi con l'esplorazione della nostra cara Italia, con qualche tappa (Bologna, Udine, Padova, Milano, Roma), rendendomi conto tuttavia di quante città, ancora, mi restino da scoprire nel nostro territorio.
Per deformazione personale, mi sono voluta documentare su un possibile tour in Giappone, nel caso fossi mai riuscita a vincere un bando Overseas per trascorrerci almeno un semestre di studi - cosa che l'Università non mi ha concesso per motivi che non voglio analizzare. Città e villaggi segnati, Festival stagionali messi in evidenza, costi, trasporti, tappe e periodi.
A capodanno 2011-'12 ero sul punto di partire per Lisbona con un'amica. Mi ero già immaginata cosa avremmo potuto fare, all'avventura. Non potendoci più andare, ho voluto buttarmi su un piano che mi avrebbe portato a Copenhagen, con visita di un paio di giorni per poi salpare alla volta delle coste Svedesi, fare un tragitto in bus e raggiungere Stoccolma.
Dopodichè ho iniziato a vagliare le opzioni per un mega-viaggio post Lauream, sulle tracce della Via della Seta: percorso europeo o percorso intero, dove passare, da sola o in compagnia, i visti, i cambi. Un viaggio che, fosse l'ultima cosa che faccio, in qualche modo realizzerò.
Alle soglie del 2013, tuttavia, il mio spirito organizzativo si è ammosciato. C'era Rio, come possibilità ancora non certa, ma anche si fosse realizzata (come poi è stato), alla logistica ci avrebbe pensato qualcun altro.

Poi è subentrata l'esperienza Erasmus, che nonostante sia tutt'altra cosa ha fatto riemergere l'urgenza di muoversi. Piena di paure, da un certo punto di vista, perchè mai prima d'ora ero stata tanto a lungo per conto mio, ma è una di quelle transizioni che ti fanno le ossa.
Ho approfittato della permanenza in Germania per permettermi il lusso di girare, sempre al risparmio. Da Heidelberg e Mannheim a Stoccarda, Esslingen, Karlsruhe, Francoforte (che ho visto solo di sfuggita, grazie alla Fiera Internazionale del Libro).
Tra due settimane, con una piccola compagnia d'italiani, partirò alla volta di una cinque giorni divisa tra Amburgo e Berlino, finalmente un viaggio creato da noi stessi per il quale, manco a dirlo, sono oltremodo gasata.

Tutti.
Sono tutti itinerari che prima o poi percorrerò, è una promessa a me stessa.
Tra gli altri, si possono annoverare un viaggio in Transiberiana, verso Vladivostok, dopo un accurato tour dell'Europa Orientale; senza scordare l'Orient Express, tra Vienna, Budapest e Bucarest. In previsione della Giornata Mondiale della Gioventù 2016, a Cracovia, c'è un certo percorso che vorrei compiere, prima di incontrare la moltitudine di giovani già in fibrillazione.
Senza considerare gli altri continenti, perché altrimenti non finisco più.
C'è un piacere insito a questo continuo fissare nuove mete. Non credo, al momento, che ci siano posti in cui non desideri andare.
Prendetemi un punto a caso nel globo. Possiamo iniziare a parlarne.

sabato 1 febbraio 2014

MemoryTraining - Chapter #2: Being Italians

Image by Giorgio Ghezzi

C'è una caratteristica insita dell'essere italiani: trovarsi. Ovunque, comunque.
E se anche, rimanendo nel Bel Paese (ora più che mai in senso Dantesco), vi venga il dubbio di dovervi vergognare del vostro luogo di provenienza, una volta all'estero, preparatevi a riconsiderare le vostre valutazioni, almeno un po'.

Non lo nego, siamo una popolazione alla quale sono state attribuite valanghe di stereotipi, positivi e negativi, oltre che a volte decisamente romanzati.
Ad esempio, abbiamo fama di essere una specie di modello Orso Abbracciatutti, cosa che spinge qualsiasi sconosciuto ad avere una confidenza immediata nei nostri confronti, completa di baci e abbracci - se siete come la sottoscritta non è l'approccio più appropriato (andiamo, do I even know you?? Nooon si tocca!), ma fa comunque intendere che partiamo con una marcia in più in molteplici occasioni. A parte con chi ci detesta a prescindere per la nostra nazionalità, ovviamente, cosa che - ahimè! - può capitare anche a noi, per i più svariati motivi.
In mezzo ai vari apprezzamenti, ci sono ovviamente tutti quelli riferiti all'arte, alla cultura, alla buona cucina e alla moda, ovvero tutta una dimensione estetico-gastronomica che può mettere in difficoltà l'interlocutore internazionale. Mi è capitato di avere a che fare con ragazzi ai fornelli, messi in soggezione dal fatto di dover servire da mangiare a un gruppo di italiani: sarà anche stata una mia impressione, ma c'era un certo nervosismo nell'aria, che mi ha fatto sorridere non poco, soprattutto considerato che sono di poche pretese, quando mi viene offerto qualcosa. Sì, amo la buona cucina e sì, sono convinta che lo stile Mediterraneo sia quello che preferisco, ma andiamo! Un po' di varietà non guasta, soprattutto fuori porta. Dicasi spirito di adattamento. Bene, mi è pure venuto appetito, ora.

Sto un tantinello deviando dal leitmotiv. O forse è solo un'impressione. Ma tornando al punto (se mai ce n'è stato uno)...
Il fattore stereotipi, siano essi culturali, comportamentali o accademici (sì, pure questi e meno negativi di quanto si possa immaginare), ha grande eco non soltanto con persone di altra nazionalità, ma con gli stessi connazionali - o nella maggior parte dei casi, i loro "derivati".
Un italiano in viaggio o in situazione di fresco trasferimento all'estero ha un'altissima probabilità di incontrare le seguenti tipologie di individui:
  1. altri Italiani residenti/dislocati temporaneamente all'estero;
  2. persone che parlano correntemente italiano, anche straniere;
  3. gente che è passata in Italia, che ci ha vissuto o viaggiato più volte;
  4. figli di famiglie italiane trasferitesi da decenni, stranieri di seconda generazione.
Queste quattro categorie se la giocano praticamente alla pari, variando a seconda dello Stato in cui ci si trova. Personalmente, ho avuto modo di trovare almeno uno dei punti sopra citati in ogni luogo che ho visitato. Ogni. Singolo. Posto.
Al che, se anche io avessi mai avuto in mente di staccarmi dal mio Paese Natio in modo drastico, mi troverei nella condizione di rinunciare a prescindere.
Image by Alina Deacu
L'Italiano, l'Italianità è ovunque.
Ma proprio ovunque, eh, partendo dalle persone incontrate alla fermata dell'autobus, per poi andare a trovare, all'angolo del borghetto sparuto in cui siete capitati, un localino che fa una pizza meno buona di quella di casa, ma pur sempre "Al cigno" o "Da Mario" si chiama.
Dall'Italia non si sfugge, ti ritrova ovunque tu sia, in molteplici forme.
Se negli ultimi anni sono i Cinesi a spargersi per il mondo a macchia d'olio, per chiari motivi numerici, un ruolo simile è stato ricoperto a suo tempo da noialtri, c'è poco da fare. Gli effetti sono palesi tutt'ora.

Tornando all'elenco di prima, pensiamo un po' all'incontro con la tipologia 1 e la tipologia 4. Entrambe, rendendosi conto di essere davanti a un connazionale, diventano improvvisamente e splendidamente disponibili, curiose come falene davanti a uno spettacolo pirotecnico.
Nel primo caso, c'è quel momento di reciproco studio, una manciata di secondi in cui si appura in silenzio di essere proprio voi, sì, siete italiani entrambi e tra tutta la gente che c'avevate attorno, avete finito con l'incontrarvi.
*momento suspence*
E via di stramazzi, risate e "Ma tu da dove sei?", "Ma va!", "E ti pare che io a Timbuctu vada a trovarmi proprio un Italiano!". Eccetera.
Di norma, a me parte un filmino mentale nel quale i due imitano una corsa sulla spiaggia al rallentatore, tipica dei film sentimentali, per poi finire con l'abbracciarsi manco si conoscessero da sempre. O, se meno touchy, scambiarsi una stretta di mano/pacca sulla spalla con annesso sorriso complice, ma questi sono dettagli.
In stile, facciamoci riconoscere.

Se valutiamo invece il quarto caso, l'italiano di seconda generazione ha spesso ereditato un senso di nostalgia consistente nei confronti della terra di provenienza dei propri genitori, dove molto probabilmente hanno ancora parenti.
Questi sono in grado di riconoscere la vostra sfumatura d'accento, che stiate parlando con l'autista di un autobus per chiedere informazioni o che ordiniate un caffè al bar. Illuminati, quasi folgorati sulla via di Damasco, non vedono più altri che voi, raccontandovi di come sognino di tornare nello Stivale per studio o lavoro.
Siete in una pista da ballo affollatissima, vi sentono scambiare due parole in italiano e subito vi fermano, occhi sbarrati e sbrilluccicosi. Proprio voi in tutta la massa di gente, è un segno.
E ancora, camminate tranquilli con un gruppo di amici in una strada metropolitana, un ciclista in senso inverso vi osserva, inchioda e con un sorriso a trentadue denti vi fa notare come ambedue i suoi genitori fossero italiani, "Padova e Potenza, sì?". Una chiacchierata di mezzora, tentando di coprire i rumori del traffico.
Sì, è affetto puro, non c'è da sbagliarsi.

Allora, forse davvero la nostra reputazione è da rivalutare.
Ci sarà anche una triste parentesi politica (altro punto noto tra gli stereotipi), il pessimo status economico e l'insicurezza su tutto quanto rappresenti la parola "Futuro", che quando pronunciata ad alta voce per le vie di una qualsiasi delle nostre cittadelle funge da spauracchio come pochi.
Ma ciò non vuol dire che l'Italiano all'estero non si faccia notare per adattabilità, openmindness e duttilità, abilità che riscopriamo nostre solo quando messi alla prova, come qualsiasi essere umano.
Ci troviamo. In tutti i sensi che questa parola possa avere, all'estero troviamo il significato della parola "altro", troviamo persone con radici simili alle nostre, ma soprattutto ritroviamo un'identità sana, mutata, che ci fa star bene con noi stessi, restituendoci quella condizione di obiettività che permette di rientrare in gioco.

Chissà, magari se tutti gli italiani medi passassero di regola un periodo all'estero, avremmo già imparato a ristrutturarci.
Con calma, impareremo.
Ci troveremo, anche in quell'insieme geografico che non sempre riusciamo a definire casa.
That's being italians. (or, at least, should be)

giovedì 23 gennaio 2014

MemoryTraining - Chapter #01: L'uomo delle noccioline

Fare da portinai ha sempre qualche vantaggio, checché la categoria lavorativa in questione possa subire l'ironia della gente.
Ci sono porte grandi, porte piccole; anonime porte di condomini, porticine variopinte in casette a schiera su modello nordeuropeo; porte del seminterrato, portoni da garage. In qualche parte di mondo, le porte ci sono e non ci sono, con un concetto relativo di spazio e dimensione privata.
Image by Kristin614

Cosa c'entra con il MemoryTraining? C'entra, c'entra.
E con l'Erasmus? Ben poco, ma come ho detto ci sono alcuni arretrati con diritto di precedenza.
Un po' di pazienza, è il flusso di memoria.

Dicevo, i portinai. Hanno un compito gratificante, per quanto riguarda la comunicazione, ma al contempo ingrato, se si bada a dover tener fuori chi è da tener fuori - non sempre un affare facile da sbrigare.

Immaginatevi di essere sulla soglia di uno di quei grandi portoni in ferro battuto, riverniciato per bene con doppia mano di verde bottiglia, che delimita il confine tra il marciapiede di una via minore in una comune metropoli e un cortile di un collegio scolastico - svuotato degli ordinari studenti e riempito di gente all'opera per gruppi che vanno e vengono. Viavai.
Fuori, passanti curiosi come Tangare, messi in fibrillazione dalle variazioni nel loro ambiente abituale.
Bene. Piazzatevi a fare da portinaio qui. Meno restrizioni in entrata, un puro e semplice ruolo interattivo. Semplice, beh, insomma. Ad interpretazione. Aggiungete la vostra incapacità comunicativa, con una differenza di lingua madre e carenza di basi idiomatiche locali.
Mettersi a fugare dubbi e a rispondere a domande in questo contesto è una sfida interessante. Con un po' d'impegno, portinai miei, potreste trovarvi gratificati.
Da che? Ci impariamo la lingua?
Meglio.
Incontriamo personaggi di spicco in borghese senza saperlo?
Meglio, meglio.
Noccioline.
Che?!
Noccioline, sì. Il classico contentino per riempire i buchi nello stomaco.
L'uomo delle noccioline sgranocchia tutto serio davanti a voi, senza far emergere emozioni particolari, oltre a una certa voglia di far passare la noia. Almeno, a voi pare di intravedere una cosa simile sotto la pelle grinzosa. L'intonazione un po' strascicata non vi fa capire tutto quello che dice, imbrogliando l'intuito interpretativo. Cerca di aiutarvi una donnina che lo conosce, con fare paziente più verso lui.
In mano ha un sacchettino di noccioline sudamericane di quelli che paiono presi a sbafo da qualche frigo bar, piccolo, carta blu lucida e stropicciata.
Dopo qualche sbuffo e alcuni discorsi che riuscite a capire solo per un quinto, al massimo due, fa gesto di allungare la mano. Ingenuamente, imitate il movimento senza capire, realizzando a fatica anche quando vi ci versa parte del contenuto del sacchettino. Tentate di dire che non serve, ma un verso dell'uomo vi fa intuire che non le rivuole, quindi ringraziate e sgranocchiate pure voi, mentre lui si siede su una sedia a caso, che avevate messo a tenere il portone e a supporto vostro per gli attimi di moria.
Mentre condividete il premio inatteso con un collega e vi accingete a dare un paio di informazioni a due giovani in cerca di altri, non lo perdete di vista, più incuriositi degli autoctoni. Eppure, quando questo svuota ufficialmente il resto delle noccioline in mano vostra e del collega, manco vi siete resi conto che s'era alzato.
Non si capisce bene come comunichi. Sarà che le noccioline v'hanno traviato e, nonostante siano decisamente salate, addolcito, ma in fondo vi sta simpatico, brontolii e companatico inclusi.
Magari sarà superfluo, incidentale, eccetera. Intanto, l'Uomo delle Noccioline c'è.

MemoryTraining - Chapter #00 (Pilot): Chi&Come

Image by Street_Spirit

Avrei dovuto iniziare a scrivere un diario di Viaggio dall’inizio, mica a quasi quattro mesi da quando sono all’estero.
È una questione di correttezza cronistica e umana. Chiariamoci, non è un obbligo morale o un sommesso tentativo di autocelebrazione, non credo arriverei a tanto. Dovrei sapere assumere toni epici, il che esula vagamente dalle mie competenze. In ogni caso, da quando è iniziato questo capitolo di vita avrei dovuto attribuire il valore adeguato a certi suoi aspetti e a determinate persone.
Cercherò di rimediare.
Non credo sia il caso di fare lunghe descrizioni prolisse di eventi accaduti, anche perché da un certo punto di vista dovrebbe vigere la regola del “Quel che avviene in Erasmus, resta in Erasmus” (le balle, sto raccontando alcuni dettagli vari et eventuali, a chi sa come chiederli). Sì, un Fight Club modalità studentesca che poggia su enormi stereotipi, talmente fantasmagorici che sfidano l’abilità immaginativa dei più azzardati utopisti (con certe basi, quello è da ammettere).
Mi piacerebbe che però la categoria di post che mi accingo a lanciare non si limiti a quest’esperienza. Ho molte cose in arretrato, relative a viaggi e non, che non ho mai diffuso a dovere.
Ci sono persone e fatti che caratterizzano i momenti della nostra vita, i quali possono rientrare nella nostra sfera personale come anche essere semplicemente persone di passaggio, punti di contatto, fraintendimenti, attimi di confusione, soggetti nei quali si individua una linea comune alla nostra, che si perdono di vista in un batter d’occhio, nell’unica intersezione che le linee temporali reciproche possano avere.
Ecco, di questo vorrei parlare. Non sembra molto chiaro, forse. Spero di dissolvere un po’ di dubbi.
Dopotutto, delle pietre vanno pur posate, anche tornando indietro con la memoria. Un valido esercizio per chi, come me, a volte rifiuta di ricordare perché troppo pigro.

E non lasciamola scappare, ‘sta ispirazione.