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domenica 12 ottobre 2014

MemoryTraining - Chapter #5: Il dramma di un Lettore in Viaggio

Image by Kristi (on Flickr)

Il Lettore in Viaggio deve affrontare tutta una serie di sfide.

Ad esempio, cosa faccio, indosso le cuffie con la musica, conscio che i brani potrebbero cozzare contro il ritmo narrativo e darmi sui nervi, oppure sto senza, sopportando le interferenze provenienti da un bambino capriccioso urlante/un gruppo di teenager che produce idiozie lessicali/gente a caso che se fosse stata casa avrebbe fatto un favore all'Universo? Mi estraneo del tutto, chiudendomi in un mondo mio, con il rischio di trovarmi a Timbuctù, senza valigia, dopo essermi congiunto a una carovana di venditori di cammelli?

Ma l'ostacolo più grande è dato da Lei.
LA pagina.
Calato in uno stuolo di Babbani miscredenti che insiste nel chiedere, insulsamente, "Ma perchè ti devi sempre portar dietro un libro?!", il Lettore si allena alla pratica del "Conceal, don't feel, don't let them know" (Elsa docet), reagendo alla storia che ha tra le mani con più o meno malcelate pokerface (ma anche no).
Ma quando arriva LEI, quella particolare pagina, prima o dopo la quale l'intuito letterario suggerisce il disastro emotivo più totale, il "Well, now they know" si affaccia dietro il sedile del treno/aereo/autobus, facendo capolino con il suo ghigno malefico.

Allora, e solo allora, il Lettore in viaggio giunge a una decisione: chiudere il libro e rimandare il fatidico momento.

Perché in momenti simili non si coinvolge solo la pericolosità che l'esplosione del proprio assetto interiore potrebbe avere sull'ambiente circostante, ma anche (e soprattutto) l'importanza del tenere per sé e sé soltanto certi momenti clou di un racconto.
Vogliamo mettere a confronto una simile situazione incresciosa con la libertà di reazione psicofisica che un Lettore può concedersi, faccia a faccia con un libro, in luogo isolato?
Solo lui/lei e quel mucchio di carta stampata (o schermino dell'E-reader, siamo attuali), quel volume che, aperto in quella fatidica Pagina, rimane appoggiato su un letto o una scrivania, mentre il suo proprietario si sbraccia, lo insulta, si dispera, rotola a terra preso da uno spasmo di ilarità, piange rannicchiato in un angolo buio e tetro mentre tenta di farsi consolare dal gatto, che fugge via all'altro angolo della casa mentre il proprietario gli urla, singhiozzando, "Torna qui e amami!".

Quindi, nonostante il richiamo del procedere verso la fine del libro, in attesa del momento propizio in cui troverà il coraggio di fare i conti con sé stesso e la storia con cui, ormai, è in piena simbiosi, il Lettore in viaggio procrastina.
Di norma, iniziando a leggere qualche altro libro. O a scrivere.

domenica 2 febbraio 2014

MemoryTraining - Chapter #3: Never-made Travels (or at least, not yet)

Image by Alex Vakulenko
Sono una di quelle persone che adora pianificare. Soprattutto viaggi, possibili o meno.
In realtà, il più delle volte si tratta di mete o percorsi perfettamente fattibili, con un po' di fortuna (in questo caso, monetaria). E sì, so che la carenza di finanze viene annoverata come una delle scuse utilizzate più di frequente per rifiutarsi di viaggiare o per fingere di desiderarlo, mentre invece fa più piacere immaginare le cose rispetto all'agire. Ma nel mio caso ci sono state davvero cause di forza maggiore, che non potevo bypassare.
Ciò non significa che mi sia astenuta dal fare progetti.
I progetti possono sempre essere ripresi in un secondo momento ed è molto probabile che si realizzino in periodi più propizi, soprattutto qualora almeno uno sia già andato a buon fine.
Nel mio caso, questo "uno" è stato il tour dell'Irlanda che ho organizzato nel 2008 con una carissima amica, incontrata nella verde isola due anni prima, giusto in occasione dei miei 18 anni.
Come si dice, le propensioni si scoprono in giovane età e ritengo, nonostante le mie mete siano finora state limitate da molteplici fattori, di essere della tipologia più portata ai viaggi.
Ma torniamo alla pianificazione.

Quando parlo di organizzare un viaggio, non intendo solo con filmini mentali o con pure fantasie. Di norma, prendo in mano tutti gli strumenti possibili e immaginabili perché tal viaggio sia decisamente realizzabile.
Internet è uno splendido strumento, a tal proposito, sempre più rifornito. Partendo dalle informazioni che si trovano online, spulciando un po' ovunque, dall'ultimo dei blogger non calcolati da nessuno ai siti di recensioni su questa o quell'altra meta, si riesce a intuire dove passare e dove non passare, cosa vedere, cosa è meglio prendere in considerazione e cosa no.

Ho iniziato con il viaggio in Irlanda, con quattro punti focali: Cork, Galway, Sligo e Dublino. Già il successivo inverno ero alle prese con altre macchinazioni, ispirata dal fervore di quell'anno.
Piccolo dettaglio: avevo appena iniziato l'ultimo anno di liceo, quindi non è stata una grande idea decidere di tentare un viaggio con duplice meta in due diverse nazioni europee per il ponte del 25 Aprile. Soprattutto considerato che a inizio marzo sarei dovuta partire per la famigerata gita di quinta superiore, da tradizione all'estero, Praga nel nostro caso. Splendida città, ma ovviamente per motivi finanziari e scolastici non potevo azzardare un'ulteriore peregrinazione di quattro giorni di lì a un mese; specie se l'intenzione era di partire da Milano, volare a Dublino, rimanerci fino a un altro volo per Madrid e poi rientrare giusto in tempo per arrivare la mattina del Lunedì a scuola.
Siamone convinte, pure. Il punto è che l'avevo seriamente ritenuto fattibile, avevo esaminato tutte le variabili, visto gli ostelli, le loro dislocazioni, calcolato le tempistiche, il treno che mi avrebbe portato fino a Milano e poi a Linate, il fatto che a Temple Bar quella sera ci fosse un Live importante e a Madrid, un paio di giorni dopo, un Festival di primavera. Tutto, davvero.
Image by Lina Linnarsson
Voglio dire, va bene lasciarsi andare all'immaginazione, ma qua si va leggermente oltre. E quello è stato solo l'inizio. Da allora, periodicamente ho bisogno di pensare a quando-come-dove potrei partire, da sola o in compagnia. Sono stata in grado di coinvolgere anche mia madre, una volta, nell'entusiasmo di un'offerta per San Patrizio 2010 in Irlanda. Ovviamente, una delle cose andate a buon fine, visto quanto entrambe eravamo propense a tale idea. In dieci ore, da quando avevo visto l'offerta a quando ho confermato la prenotazione, ho segnato tutto quello che avrei potuto mostrare a mia madre, quando e dove ci saremmo incontrate con l'amica sopra citata (anche lei coinvolta nel raptus viaggiante), ho trovato un ostello in un quartiere appartato e ho visto tutti i programmi per i festeggiamenti di San Patrizio di quell'anno.
Da allora, i miei piani si sono difficilmente realizzati.
Chiariamo una cosa, ciò non vuol dire che non abbia viaggiato. C'è una sostanziale differenza tra il viaggio organizzato da una compagnia e quello che tu riesci a crearti con milioni di appunti sparsi per sette diverse agende, valanghe di post-it e pagine su pagine consultate online. Il programma che riesco a preparare con le mie sole forze ha tutta un'altra sensazione, nonostante non possa dire di non aver adorato le due tappe extra-continentali a Shanghai e Rio. Sono state esperienze uniche nel loro genere e, dopotutto, sento di essermele guadagnate grazie a certe personali capacità.

Però questa cosa del fare, prendere e partire mi è mancata. Ho cercato di consolarmi con l'esplorazione della nostra cara Italia, con qualche tappa (Bologna, Udine, Padova, Milano, Roma), rendendomi conto tuttavia di quante città, ancora, mi restino da scoprire nel nostro territorio.
Per deformazione personale, mi sono voluta documentare su un possibile tour in Giappone, nel caso fossi mai riuscita a vincere un bando Overseas per trascorrerci almeno un semestre di studi - cosa che l'Università non mi ha concesso per motivi che non voglio analizzare. Città e villaggi segnati, Festival stagionali messi in evidenza, costi, trasporti, tappe e periodi.
A capodanno 2011-'12 ero sul punto di partire per Lisbona con un'amica. Mi ero già immaginata cosa avremmo potuto fare, all'avventura. Non potendoci più andare, ho voluto buttarmi su un piano che mi avrebbe portato a Copenhagen, con visita di un paio di giorni per poi salpare alla volta delle coste Svedesi, fare un tragitto in bus e raggiungere Stoccolma.
Dopodichè ho iniziato a vagliare le opzioni per un mega-viaggio post Lauream, sulle tracce della Via della Seta: percorso europeo o percorso intero, dove passare, da sola o in compagnia, i visti, i cambi. Un viaggio che, fosse l'ultima cosa che faccio, in qualche modo realizzerò.
Alle soglie del 2013, tuttavia, il mio spirito organizzativo si è ammosciato. C'era Rio, come possibilità ancora non certa, ma anche si fosse realizzata (come poi è stato), alla logistica ci avrebbe pensato qualcun altro.

Poi è subentrata l'esperienza Erasmus, che nonostante sia tutt'altra cosa ha fatto riemergere l'urgenza di muoversi. Piena di paure, da un certo punto di vista, perchè mai prima d'ora ero stata tanto a lungo per conto mio, ma è una di quelle transizioni che ti fanno le ossa.
Ho approfittato della permanenza in Germania per permettermi il lusso di girare, sempre al risparmio. Da Heidelberg e Mannheim a Stoccarda, Esslingen, Karlsruhe, Francoforte (che ho visto solo di sfuggita, grazie alla Fiera Internazionale del Libro).
Tra due settimane, con una piccola compagnia d'italiani, partirò alla volta di una cinque giorni divisa tra Amburgo e Berlino, finalmente un viaggio creato da noi stessi per il quale, manco a dirlo, sono oltremodo gasata.

Tutti.
Sono tutti itinerari che prima o poi percorrerò, è una promessa a me stessa.
Tra gli altri, si possono annoverare un viaggio in Transiberiana, verso Vladivostok, dopo un accurato tour dell'Europa Orientale; senza scordare l'Orient Express, tra Vienna, Budapest e Bucarest. In previsione della Giornata Mondiale della Gioventù 2016, a Cracovia, c'è un certo percorso che vorrei compiere, prima di incontrare la moltitudine di giovani già in fibrillazione.
Senza considerare gli altri continenti, perché altrimenti non finisco più.
C'è un piacere insito a questo continuo fissare nuove mete. Non credo, al momento, che ci siano posti in cui non desideri andare.
Prendetemi un punto a caso nel globo. Possiamo iniziare a parlarne.

sabato 1 febbraio 2014

MemoryTraining - Chapter #2: Being Italians

Image by Giorgio Ghezzi

C'è una caratteristica insita dell'essere italiani: trovarsi. Ovunque, comunque.
E se anche, rimanendo nel Bel Paese (ora più che mai in senso Dantesco), vi venga il dubbio di dovervi vergognare del vostro luogo di provenienza, una volta all'estero, preparatevi a riconsiderare le vostre valutazioni, almeno un po'.

Non lo nego, siamo una popolazione alla quale sono state attribuite valanghe di stereotipi, positivi e negativi, oltre che a volte decisamente romanzati.
Ad esempio, abbiamo fama di essere una specie di modello Orso Abbracciatutti, cosa che spinge qualsiasi sconosciuto ad avere una confidenza immediata nei nostri confronti, completa di baci e abbracci - se siete come la sottoscritta non è l'approccio più appropriato (andiamo, do I even know you?? Nooon si tocca!), ma fa comunque intendere che partiamo con una marcia in più in molteplici occasioni. A parte con chi ci detesta a prescindere per la nostra nazionalità, ovviamente, cosa che - ahimè! - può capitare anche a noi, per i più svariati motivi.
In mezzo ai vari apprezzamenti, ci sono ovviamente tutti quelli riferiti all'arte, alla cultura, alla buona cucina e alla moda, ovvero tutta una dimensione estetico-gastronomica che può mettere in difficoltà l'interlocutore internazionale. Mi è capitato di avere a che fare con ragazzi ai fornelli, messi in soggezione dal fatto di dover servire da mangiare a un gruppo di italiani: sarà anche stata una mia impressione, ma c'era un certo nervosismo nell'aria, che mi ha fatto sorridere non poco, soprattutto considerato che sono di poche pretese, quando mi viene offerto qualcosa. Sì, amo la buona cucina e sì, sono convinta che lo stile Mediterraneo sia quello che preferisco, ma andiamo! Un po' di varietà non guasta, soprattutto fuori porta. Dicasi spirito di adattamento. Bene, mi è pure venuto appetito, ora.

Sto un tantinello deviando dal leitmotiv. O forse è solo un'impressione. Ma tornando al punto (se mai ce n'è stato uno)...
Il fattore stereotipi, siano essi culturali, comportamentali o accademici (sì, pure questi e meno negativi di quanto si possa immaginare), ha grande eco non soltanto con persone di altra nazionalità, ma con gli stessi connazionali - o nella maggior parte dei casi, i loro "derivati".
Un italiano in viaggio o in situazione di fresco trasferimento all'estero ha un'altissima probabilità di incontrare le seguenti tipologie di individui:
  1. altri Italiani residenti/dislocati temporaneamente all'estero;
  2. persone che parlano correntemente italiano, anche straniere;
  3. gente che è passata in Italia, che ci ha vissuto o viaggiato più volte;
  4. figli di famiglie italiane trasferitesi da decenni, stranieri di seconda generazione.
Queste quattro categorie se la giocano praticamente alla pari, variando a seconda dello Stato in cui ci si trova. Personalmente, ho avuto modo di trovare almeno uno dei punti sopra citati in ogni luogo che ho visitato. Ogni. Singolo. Posto.
Al che, se anche io avessi mai avuto in mente di staccarmi dal mio Paese Natio in modo drastico, mi troverei nella condizione di rinunciare a prescindere.
Image by Alina Deacu
L'Italiano, l'Italianità è ovunque.
Ma proprio ovunque, eh, partendo dalle persone incontrate alla fermata dell'autobus, per poi andare a trovare, all'angolo del borghetto sparuto in cui siete capitati, un localino che fa una pizza meno buona di quella di casa, ma pur sempre "Al cigno" o "Da Mario" si chiama.
Dall'Italia non si sfugge, ti ritrova ovunque tu sia, in molteplici forme.
Se negli ultimi anni sono i Cinesi a spargersi per il mondo a macchia d'olio, per chiari motivi numerici, un ruolo simile è stato ricoperto a suo tempo da noialtri, c'è poco da fare. Gli effetti sono palesi tutt'ora.

Tornando all'elenco di prima, pensiamo un po' all'incontro con la tipologia 1 e la tipologia 4. Entrambe, rendendosi conto di essere davanti a un connazionale, diventano improvvisamente e splendidamente disponibili, curiose come falene davanti a uno spettacolo pirotecnico.
Nel primo caso, c'è quel momento di reciproco studio, una manciata di secondi in cui si appura in silenzio di essere proprio voi, sì, siete italiani entrambi e tra tutta la gente che c'avevate attorno, avete finito con l'incontrarvi.
*momento suspence*
E via di stramazzi, risate e "Ma tu da dove sei?", "Ma va!", "E ti pare che io a Timbuctu vada a trovarmi proprio un Italiano!". Eccetera.
Di norma, a me parte un filmino mentale nel quale i due imitano una corsa sulla spiaggia al rallentatore, tipica dei film sentimentali, per poi finire con l'abbracciarsi manco si conoscessero da sempre. O, se meno touchy, scambiarsi una stretta di mano/pacca sulla spalla con annesso sorriso complice, ma questi sono dettagli.
In stile, facciamoci riconoscere.

Se valutiamo invece il quarto caso, l'italiano di seconda generazione ha spesso ereditato un senso di nostalgia consistente nei confronti della terra di provenienza dei propri genitori, dove molto probabilmente hanno ancora parenti.
Questi sono in grado di riconoscere la vostra sfumatura d'accento, che stiate parlando con l'autista di un autobus per chiedere informazioni o che ordiniate un caffè al bar. Illuminati, quasi folgorati sulla via di Damasco, non vedono più altri che voi, raccontandovi di come sognino di tornare nello Stivale per studio o lavoro.
Siete in una pista da ballo affollatissima, vi sentono scambiare due parole in italiano e subito vi fermano, occhi sbarrati e sbrilluccicosi. Proprio voi in tutta la massa di gente, è un segno.
E ancora, camminate tranquilli con un gruppo di amici in una strada metropolitana, un ciclista in senso inverso vi osserva, inchioda e con un sorriso a trentadue denti vi fa notare come ambedue i suoi genitori fossero italiani, "Padova e Potenza, sì?". Una chiacchierata di mezzora, tentando di coprire i rumori del traffico.
Sì, è affetto puro, non c'è da sbagliarsi.

Allora, forse davvero la nostra reputazione è da rivalutare.
Ci sarà anche una triste parentesi politica (altro punto noto tra gli stereotipi), il pessimo status economico e l'insicurezza su tutto quanto rappresenti la parola "Futuro", che quando pronunciata ad alta voce per le vie di una qualsiasi delle nostre cittadelle funge da spauracchio come pochi.
Ma ciò non vuol dire che l'Italiano all'estero non si faccia notare per adattabilità, openmindness e duttilità, abilità che riscopriamo nostre solo quando messi alla prova, come qualsiasi essere umano.
Ci troviamo. In tutti i sensi che questa parola possa avere, all'estero troviamo il significato della parola "altro", troviamo persone con radici simili alle nostre, ma soprattutto ritroviamo un'identità sana, mutata, che ci fa star bene con noi stessi, restituendoci quella condizione di obiettività che permette di rientrare in gioco.

Chissà, magari se tutti gli italiani medi passassero di regola un periodo all'estero, avremmo già imparato a ristrutturarci.
Con calma, impareremo.
Ci troveremo, anche in quell'insieme geografico che non sempre riusciamo a definire casa.
That's being italians. (or, at least, should be)

giovedì 23 gennaio 2014

MemoryTraining - Chapter #01: L'uomo delle noccioline

Fare da portinai ha sempre qualche vantaggio, checché la categoria lavorativa in questione possa subire l'ironia della gente.
Ci sono porte grandi, porte piccole; anonime porte di condomini, porticine variopinte in casette a schiera su modello nordeuropeo; porte del seminterrato, portoni da garage. In qualche parte di mondo, le porte ci sono e non ci sono, con un concetto relativo di spazio e dimensione privata.
Image by Kristin614

Cosa c'entra con il MemoryTraining? C'entra, c'entra.
E con l'Erasmus? Ben poco, ma come ho detto ci sono alcuni arretrati con diritto di precedenza.
Un po' di pazienza, è il flusso di memoria.

Dicevo, i portinai. Hanno un compito gratificante, per quanto riguarda la comunicazione, ma al contempo ingrato, se si bada a dover tener fuori chi è da tener fuori - non sempre un affare facile da sbrigare.

Immaginatevi di essere sulla soglia di uno di quei grandi portoni in ferro battuto, riverniciato per bene con doppia mano di verde bottiglia, che delimita il confine tra il marciapiede di una via minore in una comune metropoli e un cortile di un collegio scolastico - svuotato degli ordinari studenti e riempito di gente all'opera per gruppi che vanno e vengono. Viavai.
Fuori, passanti curiosi come Tangare, messi in fibrillazione dalle variazioni nel loro ambiente abituale.
Bene. Piazzatevi a fare da portinaio qui. Meno restrizioni in entrata, un puro e semplice ruolo interattivo. Semplice, beh, insomma. Ad interpretazione. Aggiungete la vostra incapacità comunicativa, con una differenza di lingua madre e carenza di basi idiomatiche locali.
Mettersi a fugare dubbi e a rispondere a domande in questo contesto è una sfida interessante. Con un po' d'impegno, portinai miei, potreste trovarvi gratificati.
Da che? Ci impariamo la lingua?
Meglio.
Incontriamo personaggi di spicco in borghese senza saperlo?
Meglio, meglio.
Noccioline.
Che?!
Noccioline, sì. Il classico contentino per riempire i buchi nello stomaco.
L'uomo delle noccioline sgranocchia tutto serio davanti a voi, senza far emergere emozioni particolari, oltre a una certa voglia di far passare la noia. Almeno, a voi pare di intravedere una cosa simile sotto la pelle grinzosa. L'intonazione un po' strascicata non vi fa capire tutto quello che dice, imbrogliando l'intuito interpretativo. Cerca di aiutarvi una donnina che lo conosce, con fare paziente più verso lui.
In mano ha un sacchettino di noccioline sudamericane di quelli che paiono presi a sbafo da qualche frigo bar, piccolo, carta blu lucida e stropicciata.
Dopo qualche sbuffo e alcuni discorsi che riuscite a capire solo per un quinto, al massimo due, fa gesto di allungare la mano. Ingenuamente, imitate il movimento senza capire, realizzando a fatica anche quando vi ci versa parte del contenuto del sacchettino. Tentate di dire che non serve, ma un verso dell'uomo vi fa intuire che non le rivuole, quindi ringraziate e sgranocchiate pure voi, mentre lui si siede su una sedia a caso, che avevate messo a tenere il portone e a supporto vostro per gli attimi di moria.
Mentre condividete il premio inatteso con un collega e vi accingete a dare un paio di informazioni a due giovani in cerca di altri, non lo perdete di vista, più incuriositi degli autoctoni. Eppure, quando questo svuota ufficialmente il resto delle noccioline in mano vostra e del collega, manco vi siete resi conto che s'era alzato.
Non si capisce bene come comunichi. Sarà che le noccioline v'hanno traviato e, nonostante siano decisamente salate, addolcito, ma in fondo vi sta simpatico, brontolii e companatico inclusi.
Magari sarà superfluo, incidentale, eccetera. Intanto, l'Uomo delle Noccioline c'è.

MemoryTraining - Chapter #00 (Pilot): Chi&Come

Image by Street_Spirit

Avrei dovuto iniziare a scrivere un diario di Viaggio dall’inizio, mica a quasi quattro mesi da quando sono all’estero.
È una questione di correttezza cronistica e umana. Chiariamoci, non è un obbligo morale o un sommesso tentativo di autocelebrazione, non credo arriverei a tanto. Dovrei sapere assumere toni epici, il che esula vagamente dalle mie competenze. In ogni caso, da quando è iniziato questo capitolo di vita avrei dovuto attribuire il valore adeguato a certi suoi aspetti e a determinate persone.
Cercherò di rimediare.
Non credo sia il caso di fare lunghe descrizioni prolisse di eventi accaduti, anche perché da un certo punto di vista dovrebbe vigere la regola del “Quel che avviene in Erasmus, resta in Erasmus” (le balle, sto raccontando alcuni dettagli vari et eventuali, a chi sa come chiederli). Sì, un Fight Club modalità studentesca che poggia su enormi stereotipi, talmente fantasmagorici che sfidano l’abilità immaginativa dei più azzardati utopisti (con certe basi, quello è da ammettere).
Mi piacerebbe che però la categoria di post che mi accingo a lanciare non si limiti a quest’esperienza. Ho molte cose in arretrato, relative a viaggi e non, che non ho mai diffuso a dovere.
Ci sono persone e fatti che caratterizzano i momenti della nostra vita, i quali possono rientrare nella nostra sfera personale come anche essere semplicemente persone di passaggio, punti di contatto, fraintendimenti, attimi di confusione, soggetti nei quali si individua una linea comune alla nostra, che si perdono di vista in un batter d’occhio, nell’unica intersezione che le linee temporali reciproche possano avere.
Ecco, di questo vorrei parlare. Non sembra molto chiaro, forse. Spero di dissolvere un po’ di dubbi.
Dopotutto, delle pietre vanno pur posate, anche tornando indietro con la memoria. Un valido esercizio per chi, come me, a volte rifiuta di ricordare perché troppo pigro.

E non lasciamola scappare, ‘sta ispirazione.

lunedì 9 dicembre 2013

Chi ha sputato nel piatto di fagioli?

"Sai, avremmo dovuto prendere uno di questi taccuini e fare una specie di diario di bordo, fin dall'inizio."Nel dirmi questo, qualche giorno fa ai Weihnachtsmarkt, la mia coinquilina non aveva tutti i torti.

Sono circa due mesi che non scrivo sul blog. Il mio arrivo qua precede l'ultimo post di una manciata di giorni.
Non è che abbia qualche strano blocco dello scrittore. Ho creato tre racconti in italiano, un testo in giapponese, sto preparando una presentazione in tedesco di cui mi devo prima fare uno script, ho trovato una tematica specifica che probabilmente porterò a Tesi, sto lavorando su due esami da non frequentante e su due papers, ho pronto il canovaccio di un video e ho vari racconti in sospeso.
Mi sono anche premurata di tenere aggiornate un po' di persone - oralmente, via skype, via social.

Sta andando bene. Dico sul serio, anche se faccio fatica ad adattarmi al sistema locale e alla mescolanza di lingue, sto cercando di adattarmi al meglio e il metodo mi piace. Ho alcuni problemi ancora con la burocrazia e con dei corsi in Italia, ma si sistemeranno. Studio e incontro persone. Tante, varie, belle. Raccolgo storie, raccolgo esperienze e caratteri senza i quali questo periodo non sarebbe stato uguale.
Sono passata per Francoforte, Karlsruhe, Mannheim, Stoccarda, Esslingen, i dintorni di Heidelberg oltre alla città stessa.
Mi metto in gioco. Non per questo mi scordo del punto da cui sono partita.
Ho perfino previsto un ritorno a casa per Natale, fuori programma. E ad essere sincera, sono un po' pentita del fatto di rimanerci appena una settimana. Ma mi aspetta un Capodanno con Erika quassù. Mi verranno a trovare altre due persone, nel frattempo, Alessia la prossima settimana e Miriam a Gennaio.

Rimane qualcosa che non va.
Non è il posto. Non è la gente. Non è lo studio.
In sostanza, è una cosa tra quelle che temevo accadessero. Sento di esser stata messa da parte.
Il che è buffo, da un certo punto di vista sono io ad essere partita fregandomene di tutto e tutti, così, per un anno - dieci mesi, quel che è.
In molti si sono raccomandati, "Non scordarti di me, eh!". Seems legit, io mi creo nuovi contatti qui per non essere un'isola, quindi viene automatico pensare che tutto il resto non mi interessi. Lo capisco, davvero. Ciò non giustifica, dall'altra parte, un comportamento analogo. Qualcuno ci scherza sopra, a riguardo - ma normalmente, si tratta di persone che sento regolarmente e che sto apprezzando sempre di più per questo.
Onestamente? Ci sto provando.
Per quanto possa esser dura, non sono in capo al mondo e anche se mi è impossibile esserci fisicamente per certe cose, continuo a pensarci, a farmi venire in mente persone che hanno caratterizzato la mia vita finora, a riti quotidiani e settimanali che non sono più la mia norma e la cui assenza ha sostanzialmente modificato il mio stile di vita in appena due mesi.
Non sarò costante - la vedo dura, tenendo conto di tutti i fattori, è naturale non avere gli stessi riflessi e la stessa prontezza che a "casa". Però almeno ci penso, ci provo. Perchè devo essere solo io a prendere l'iniziativa? Perchè io sono una e gli altri sono tanti, quindi l'una isolatasi dalla massa è quella che deve fare il maggiore sforzo? E ripeto, l'ho fatto.
Tant'è che, comunque, la massa mi ha tenuto in conto per ben poco, facendo emergere probabilmente quei pochi che vogliono ricambiare lo sforzo, per quanto soffrendo la distanza - e a questi pochi, che hanno sopportato papiri via messaggio o via mail, ore infinite di conversazione tramite uno skype che sembra intenzionato a riavviarmi il pc almeno tre volte per sessione, va il più grande e sincero affetto che la mia me delle 3.30 del mattino sia in grado di produrre (vi voglio bene, sappiatelo).
I restanti forse ci hanno provato, ma con così poca convinzione che il tentativo è sfumato nel corso delle prime settimane. Passato ottobre, passata la festa. Basterebbe un messaggio a caso, come fa qualcuno, che lascia delle chicche in giro per le bacheche che apprezzo tantissimo, pur nella loro essenzialità.

Sarà per questo che non nutro un così grande interesse a rendere nota ogni cosa al "pubblico", se c'è mai stato. Se qualcuno vuole davvero sapere per filo e per segno le cose, basta chiedere. Ma anche no, suvvia, cosa pretendiamo. Sono via, quindi ho già dato tutto quello che potevo dare. Non servo mica.
Tanto che me frega, a me. Tanto, son qua pei cazzi miei, se voglio mi devo muovere io. Tanto si sa che è così.
Tanto poi mi abituo, no?
Certo.
Tanto poi mi abituo.
Tanto.

Grazie. Danke. Thanks. Gracias. Obrigada. ありがとう. 谢谢. Merci. 감사합니다. Tapadh leibh.
Spero il senso di sarcasmo riesca a filtrare attraverso tutte queste lingue.

giovedì 3 ottobre 2013

It's a Teutonic Land, baby.

First week of non-officially-started Erasmus.
Right now, I'm laying on my bed at Steffi's Hostel, Heidelberg, located in the amusing german region of Baden-Wuttemberg.

I finally got a home with my Erasmus mate (yay!) after a worrying start of our research. I'm ready to start my studies, or at least I think so... And all that's left to do regards bureaucracy - that hideous thing I thought I would have eventually left in Italy, until next fallout of the system running Ca' Foscari website. Because there'll be one as usual, I expect. But I'm prepared for that.
The matter is, I was not even slightly prepared to face German bureaucracy, not only because of the amount of things it compels, but also because of a structure I didn't expect.

The Italian curious phenomenon described perfectly throughout something like "The twelve tasks of Asterix" movie shows an office system ready to freak you over.
"We are not the right desk for this, try the second on the left at Central Building's second floor!", "Not really, you should go to Info Center at Uni Square to be sure", "Well, if you just try to ask the City Hall...", and so on. I can assure you, this is not an Italian exclusive method (ohohoh, destroying stereotypes, how I llove it!).
Sure, German efficiency is pretty famous and correctly assigned in most circumstances. Even in this one, I'd say. But cases like the Italian offices' Triathlon happen pretty often, actually - I experienced some in the past days.
This notwithstanding, if I'm a foreign student that arrives at the beginning of the month, moreover after notifying it to you, I expect to apply for my studies at your offices when you told me to be there. Right? Not a parade, nor a sumptuous Ceremony like Hogwarts'. Just doing what I'm supposed to do.
So, finding closed the desk responsible to sign most of my documents for the exchange during the entire first week before the Orientation and the Language placement Test is not pleasant.
Let's also add my still-not-acquired knowledge about German national holidays, that makes me try to apply during the Day of German Unity, running to get to the offices before offices closing time and finding them all shut. I felt terrible, with all the matters I still ought to manage before the lectures start.
So, I'm a little upset.

Anyway, apart from these traumas, I still reckon there're loads of differences from Italian University system, starting from spaces and places dedicated to students' academic and private time, adding the availability of Staff and Students' Support, pretty affordable living costs and so on. Moreover, if you don't know German, in most cases you'll find someone that can speak English just around the corner - not everybody, of course, but a good percentage of citizens can manage a little English, or even Italian in my case. Speaking of that, it's pretty common to get in touch with other Italians, noticing their home accent at the bus stop and pointing out there's a big Italian community nearby, as well as encountering nationals within the Hostel guests or waiting at Uni offices like you. Pretty fun, to be honest.
All of these things go along with a very fascinating atmosphere, permeating the Altstadt, or Old Town, and many other places.
To close this quick (yeah, for me this is short) post, I can assure you that it's not a case if I came here for Japanese and Asian Studies.
At least I can overheard the discourses between Asians guests in the Kitchen without them knowing. And considering how they've been occupying the stoves in the common room, I don't even feel guilty for it. It's called karma, dearies.
Sooo good! :D *giggles*

Tschüß!

mercoledì 11 settembre 2013

# Chiamata in Attesa #

Le domande mandano a male la gente.
"Ma allora, ci hai parlato con Lui?"
Certo che ci ho parlato. Non sono andata in Brasile a lavorare, divertirmi e basta.
Il punto è vedere, effettivamente, quando posso agire. Non posso tenere in attesa tanto a lungo un simile richiamo.

Mi rendo conto che il mio essere in viaggio persiste e che difficilmente si esaurirà di qui a breve. Chiariamoci, non che mi dispiaccia avere una vita continuamente orientata al movimento. Dovessi fermarmi del tutto, forse, farei prima a morire. (la drasticità fatta frase, n.d.me - vedi anche il post precedente)
L'unica è abituarsi all'idea. Ho progetti, in testa, sulla cui fattibilità mi interrogo. Eppure, in qualche modo, penso finalmente di aver trovato quelli giusti. Dovrò cambiare, per attuarli, cambiare non poco.
Il primo passo si compie con questo anno accademico agli albori, mentre ancora tento di concludere degnamente una sessione finora insoddisfacente. Sia che mi laurei entro il 2014, sia che finisca nel 2015, a tutti gli effetti è l'ultimo anno di studi. Non mi piace l'idea di una carriera accademica, non fa per me. In fondo, ritengo sia piuttosto improbabile che mi venga anche solo proposta da qualcuno, tanto ne sono distante.

Image by Wesley Martinez
Dopo l'esame di venerdì 13 (amo questa data), non avrò a che fare con Ca' Foscari che per questioni burocratiche, un paio d'esami da non frequentante che darò tra un anno e qualche lezione di sfuggita prima della partenza. Sto salutando persone che hanno costituito la mia normalità, nella vita quotidiana e negli ultimi quattro anni. Di questi, chi va oltreoceano, chi lascia, chi si trasferisce per studio in altri luoghi, differenti dalla mia meta.
Il 30 settembre, ufficialmente, partirò per la Germania.
Il mio anno sabbatico.
Per un'espressione simile, non intendo affatto il "tutto pacchia, niente studio" a cui di solito viene associato l'Erasmus dai più. Mi riferisco a un anno in cui il mio obiettivo sarà l'assimilazione di due o più lingue, il raffronto con un diverso ambiente e il tentativo di sopravvivere con le mie forze (e, ahimè, le finanze ancora non del tutto mie).
Niente impegni particolari pregressi, niente associazioni, niente compagnie note, niente di niente.
Altolà! Non vado in clausura, sia chiaro. Vado solo a modificare fortemente il mio stile di vita, si vedrà poi se in maniera temporanea o decisiva. Io, dal mio canto, spero proprio di trovare quell'autonomia e quel distacco da cose e persone di cui ho bisogno, per capire cosa fare di me appena dovrò tornare in patria.
Soprattutto, l'intenzione è di scoprire la strada più adatta per compiere quello che ho in mente, senza danneggiare nessuno, senza più trovarsi a chiedere sostentamento perché questo mondo mi chiede di investire monetariamente sul mio futuro, se voglio anche solo nutrire la speranza di averne uno.

Idee. Quelle cose su cui mi mettono sempre più in guardia i "grandi", perché continuare a illudersi fa male e presto qualche ginocchiata sulla schiena mi arriverà, con il peso della realtà.
Idee. Ce ne sono a iosa, tutte orientate verso un punto preciso.
Ci arriverò. Non so come, non so quando; ma confido che ci arriverò.
E tirerò su quella cornetta.

venerdì 12 luglio 2013

In Viaggio

Presumibilmente, questo è un blog bipolare.
Come il canale video. Va e viene così, a ispirazione. Ma dopotutto, non penso proprio che scrivere debba essere una cosa forzata. Non sono una scrittrice, ne ho avuto la comprova pochi giorni fa davanti a una persona dalla fantasia encomiabile, in grado di creare storie dal nulla in tempi stretti. Io non ne sono in grado. Vado a tratti. Talora mi sfogo per ore, stendendo e correggendo brani, racconti, poesie, robe non altrimenti meglio definibili. Altre volte passano mesi tra una fase di creatività e l'altra.

Morale: non pubblicherò mai nulla, se non mi viene assegnato.
Ragion per cui tesi e ricerche per esami non mi spaventano affatto. Sono parecchio indietro con una tesina da preparare per un esame opzionale, da non frequentante, sul tema del razzismo trans-pacifico tra USA e Giappone. So cosa fare, ma aspetto, sapendo di produrre al meglio quando avrò la mente più libera. Il 13 settembre è ancora distante.
Idem con patate e rucola per un saggio/racconto/concorso svolto il 1° luglio: mi sono presentata a Venezia, sotto antibiotici e in vista di ben due partenze nel giro di dieci giorni per svolgere un tema di matrice Erasmus, solo per competere a livello nazionale con chissà quanti altri pretendenti delle due borse di studio da 500 euro. Il tutto senza preparazione alcuna, senza dizionario, senza alba di possibili tracce subodorate. Così, all'acqua di rose. Finendo poi per scrivere un racconto.

Fatico a capirmi, in senso lato.
Fatico a capire perché a casa non mi sento più a casa.
Fatico a capire perché dico di amare la lettura e la scrittura se, ora come ora, sono fattori parecchio messi al patibolo nel mio immaginario personale.
Fatico a rendermi conto di essere una persona ufficialmente in viaggio, che si sente più a suo agio e più presa in considerazione in ogni luogo tranne che dov'è sempre stata.


Sto notando che, appena prima di partire, non ho il senso della partenza, almeno non in modo così accentuato e non negli ultimi tempi. Ero eccitata all'idea di partire per Shanghai, tre anni fa (oh cielo, son già tre anni), come lo ero prima di tornare in Irlanda per San Patrizio, sempre nel 2010.
Più o meno è da allora che non mi muovo all'estero, escludendo brevi tappe in Slovenia-Austria, alle quali però posso dire di essere in qualche modo abituata. Tagliamo fuori anche quelle due volte che ho accompagnato o sono andata a prendere mia cognata e i bambini in Germania.
Gli ultimi tre anni sono rimasta qui, perdendo come non mai il senso dell'altro. Non dello "straniero" e basta, chiariamoci. Dell'Altro, quello con la A maiuscola. Mi sono man mano atrofizzata nelle relazioni.
Non fosse stato per alcune parentesi che mi hanno smossa, sarei totalmente apatica, a forza di soffocare emozioni non corrisposte o tentativi di approccio verso un qualsiasi prossimo messi a tacere.

Le parentesi in questione mi hanno, per così dire, salvato. Momenti di aggregazione, momenti di confronto, momenti che sono culminati in Campiscuola estivi, di una settimana al colpo tra Giugno e Luglio assieme a X giovani e un centinaio di ragazzi, delle più varie età.
Banale? Mah, per qualcuno forse. Non per me. Non credo siano una dimensione scontata. Vero, faccio animazione in parrocchia e professo un certo Credo. In più, ho aspettato ben più del dovuto per aderire a una simile iniziativa estiva. Ritengo sia un'opportunità da non sprecare, tuttavia. A scanso d'equivoci, finora ne ho fatti tre, uno per estate, dal 2011 incluso. Il primo è sempre il primo, il secondo aveva un che di sospetto nei ragazzi, il terzo... Beh, il terzo è il terzo, forse più del primo.
Non mi sto spiegando, no. Mettiamola così: prima dei Campi del 2011 e del 2012, ero oltremodo preparata, pronta a tutto, mi ero assestata psicologicamente per l'esperienza, tesa peggio di una corda di violino in una composizione di Béla Bartók (oddio, reminiscenze).
Quest'anno no. Niente, ma proprio neanche l'ombra di uno stralcio di consapevolezza del fatto di dover andar su in montagna con 91 ragazzini delle Medie e altri 11 educatori, più Capocampo e Capocasa.
[starò parlando aramaico, per chi non conosce il sistema, ma reggetemi il gioco]
Ciò non vuol dire che non sia andato bene. Anzi, se posso azzardare la combinazione di persone che si era creata penso fosse la più efficiente, efficace e bella degli ultimi anni. Davvero, gente spettacolare che mi ha fatto commuovere come non avrei mai pensato.
Forse le mie percezioni si stanno distorcendo? Chi lo sa. Fatto sta che, anche adesso che sto per partire per il Brasile, con 20 giorni di servizio per la GMG con il Papa e un gruppo di circa 25 giovani da tutta Italia, non mi sembra di essere davvero sulla porta di casa, nuovamente, nel giro di dieci giorni.
Spero sia di buon augurio, come lo è stato per il Campo.

Non so se ho fatto il punto della situazione. Non credo nemmeno il mio obiettivo fosse veramente trovare un punto, sempre che ci sia.
Sono più in crisi per il fatto di dover partire 10 mesi in Erasmus per la Germania che dall'imminente volo transoceanico. In crisi per quel che ho costruito finora, in crisi per quel che lascio in casa e fuori. In crisi per il dubbio che si sta insinuando in me, che mi mette davanti alla possibilità di non essere davvero in grado di vivere da sola.
La prova del nove, insomma. Mi trovo davanti a due occasioni che mi chiariranno una volta per tutte come entrerò nel mondo. E no, considerato cos'ho in testa per il post-lauream, non credo di esagerare. Per nulla.
Spero solo che tutto l'affetto raccolto nell'ultima settimana, a forza di abbracci e nostalgia, non vada perduto, accompagnandomi nei passi successivi.

Crossing fingers.
Até logo!

lunedì 26 novembre 2012

Morfeo, gli osservatori Latino-americani e 'sto maledetto mese

Nel corso di un Novembre che si sta rivelando alquanto insidioso, riemergo, finalmente riemergo con un post!
Voglio esordire asserendo e dichiarando ivi stante che ho sonno. Ma non il "oh, si fa sera, mi devo alzar presto, Morfeo cullami" genere di sonno. Piuttosto direi la stanchezza derivata dall'aver dormito poco e male, con una giornatina che doveva essere a base di lezione + studiostudiostudio, con previsione di - ve lo immaginereste mai? - quattro lezioni e ancora studio il dì a seguire. Da uscir di casa alle 6.30 e rientrare alle 21.30, Trenitalia permettendo.
Martedì nero. Odio i martedì. E i lunedì, per principio.

Image by Paci.Mau
Oggi inoltre sono stata partecipe di taluni peculiari avvenimenti. In primis, al momento di prendere borsa, cappotto e companatico per migrare da tale amata biblioteca, son stata talmente rimbecillita da aver completamente scordato sopra il tavolo da studio il dizionario elettronico (pagato fior di soldini, N.d.me), altrimenti noto come "ancora di salvezza per orientalisti". Assenza di cui mi son resa conto quando il treno era a Mestre. Fortuna ha voluto che una mia amica fosse ancora là in giro per recuperare il wasuremono, non senza un attributo a me rivolto che ora non rammento (ma la cui natura dimostra il suo affetto per moi, ovviamente).

L'epopea via rotaie nel frattempo è proseguita.
Serve fare una premessa.
Causa cambio mobilia per le due camere principali nella sezione di casa abitata da fratello&famiglia, siamo tutti accampati allegramente nella zona abitata da me&genitori, di notte qualcuno accampato in sala, qualcuno in cucina, qualcuno nel letto vuoto accanto al mio.
In quest'ultimo, è stato piazzato il nipotoso, giustamente, per ottimizzare gli spazi. Io, quindi, sto affinando le mie tecniche ninja notturne per far meno rumore possibile, al risveglio come al coricarsi. Anche ora, dovrebbe dormire dietro di me, ma presumo mi stia fissando. Ama fissare. Comunque.
Dopo il mio rientro a casa ad un orario decente (mezzanotte?) e le mie funamboliche acrobazie organizzative pro combo notte + mattina-da-sveglia-con-le-galline, quando finalmente mi sono adagiata sul cuscino tanto adorato, il pargolo ha deciso in primis di fissarmi mezzo intontito (crede che non me ne sia accorta), per poi ripiombare tra le braccia del dio del sonno con russatine e tossicchiare da mezzo-raffreddato.
Va beh, ci può stare. Son abituata quando dormo con mamma.
Nell'istante migliore per dormire, ormai in salvo da fissaggi e raschi di gola, stavo per dar l'ultimo sbadiglio che accompagna il dormiveglia pre-nanna quando il nipote decide di mangiare.
Proprio così. Senza cibo nè nulla, eh, ma con masticazione, salivazione, deglutizione e tutto il corollario, roba che neanche i versi di cortesia tradizionale giapponese. Un concerto da far saltare i nervi. E via così per non so quanto, facendomi restar sveglia più del dovuto.
Dopodichè, cessata la cacofonia, devo aver atteso un po' e poi dormito per un paio d'ore.
Alle 3.14 (ho guardato la sveglia), sento un mumbling (in italiano non rende) che mi impedisce di continuare qualsiasi sogno che non avrei mai ricordato. Ho il sonno leggero, sì.
E ovviamente, conclusa la chiacchierata incomprensibile, via di ulteriori scorpacciate d'aria, con digestione decisamente lunga. Ripreso a sonnecchiare malamente dopo un pezzo, di certo non prima delle 4 (altra occhiata disperata alla sveglia).
Giù dalle brande alle 6 meno un quarto.
*mantra* Glivogliobenesonosoloduenottiaaargh *mantra*

Perfetto. Dopo questa tediosa antifona, aggiungo che mi sono appisolata in treno già all'andata, ho rischiato di crollare in classe e in aula studio, muovendomi su e giù per i ponti principalmente per inerzia.
Quindi, mi pare comprensibile che, con il dizionario in mani affidabili e l'ansia svanita, fossi lì lì per scemare pure al ritorno.
A Mestre sono saliti due Latino-americani, da quanto ho percepito Dominicani.
Io me ne sono abbastanza fregata, se devo esser sincera, avevo le cuffie su a un volume moderato - scarsa batteria - e nessuna voglia di intromettermi in discorsi vari.
Difatti non son stata coinvolta direttamente. Tuttavia, nel rintontimento, ho captato diverse frasi con me per soggetto o qualcosa che mi apparteneva come indirizzo dell'attenzione di coppia, in particolare della donna davanti a me. Il tutto in spagnolo.
Ora, d'accordo, si commenta di tutto oggidì, magari non proprio davanti alla persona in questione, se è una benemerita sconosciuta, pur mezza addormentata. Ma il fatto che tu stia parlando in spagnolo non mi impedisce di comprenderti.
Italiano è molto simile a Spagnolo, entiende? *tant'è che diversi anglofoni ci ritengono interscambiabili*
Non mi serve averlo studiato per averne una comprensione base, considerato pure che il dialetto veneto ha molte accezioni che ricordano espressioni ispaniche. Inoltre, ho sempre avuto un orecchio particolare per le lingue europee (modesta), arrivando a capire anche conversazioni semplici in romeno, pur non parlandolo.

Con ciò ovviamente non voglio andar contro a nessuno. Ma a prescindere, le persone che mi prendono spudoratamente ad oggetto di osservazione nei momenti meno opportuni mi stanno sulle balle che non ho. Soprattutto se ti sento, sono qui davanti, porca puttana.
Al che mentalmente mi è partito un dialogo, perché per rispondere o guardar male non avevo nè forza, nè voglia:

- Sì, mi sto appisolando in treno, cara. Sì, si sta discretamente comodi, non ti sembra solo.
- No, non si chiamano Nagaiki questi che ho appesi alle orecchie. Sono orecchini a forma di Onigiri, tesoro, sì. Il Nagaiki credo sia una tecnica di massaggio Shiatsu. Quello che vorrei io ora. No, non mi imbarazzano le mie scelte estetiche, non li porto per far piacere agli altri. E no, col cazzo che puoi scattarci una foto, quasiquasi.
- Sì, ho un cellulare scorrevole, di quelli con la tastierina di cui tu stai imitando il gesto. Se lo vuoi comprare, checosamene? Basta che non approfitti di qualsiasi cosa faccio io.
- No, non devo scendere solo perché ho tirato su la borsa. E' che ci hai cacciato sei o sette volte sopra i tacchi impolverati in modo impietoso e dentro avrei cose che mi servono.
- No, non mi rovino l'udito con le cuffie. Se vuoi prendertele ma hai paura che ti diano fastidio, cacchi tua.

E poi sarei io ad essere fastidiosa.
Acidità poco volatile. Stress. Più o meno come la comitiva logorroica di ritorno dalla Giornata della Laurea.
No, ora un esempio è lecito:

- Papà, ma dai che devi passare a Vodafone che è vantaggioso, dai che devi passare, devi passare ti dico, ma sai che ti conviene, è davvero vantaggioso, ti conviene, costa poco, poco eh, ci sono anche io, dai passa, papà, cosa aspetti, passa che poi ti conviene di più... *etcetc, sempre uguale + sorella a dare manforte*
(conversazione di una neo-laureata, evidentemente lesa, farei notare)

Questo solo l'inizio. Io e i miei abbiamo appurato come fosse l'intera famiglia così - buon sangue, deh - il che ci è valso un tragitto in compagnia di quindici persone che hanno passato il tempo continuando a ripetere le stesse cose, le stesse, incessanti, inutili, velleitarissime (si dirà?) cose, da bocche diverse. Commentando che:
"Sì, stiamo passando questa stazione, ma abbiamo già passato questa stazione? si che abbiamo passato questa stazione! Ma no, che questa stazione non è quella prima, ma quella che era prima l'abbiamo già passata? Ma no che non abbiamo passato quella prima! allora non siamo a questa stazione, siamo a quella stazione. Ma quand'è che arriviamo a quella stazione? la stazione era diversa! ma è quello che le fa tutte? ma per tutte intendono tuttetutte? Ma tutte tutte tutte significa tutte anche quelle che tutte non sembrano? ma tutte tutte tutte significa che salta le principali? ma se le fa tuttetuttetutte.."

Crissssstoforo Colombo, gioca ad Angry Birds sul telefono piuttosto. O dormi come il nonno tuo cerca di fare ogni volta che gli rompi le balle, pur vedendo che è esausto.
Sono io? Sono io ad essere sbagliata?? No, ditemelo, vi prego. Sono stressante pure io, quando mi ci metto, ma non credo a tal punto così... Così.
Perchè? 


P.S.: tanto per ridere, domenica ho un esame di certificazione linguistica che probabilmente cannerò. Sì, di domenica. All'Una. Sono Pazzi, Questi Giapponesi.

martedì 21 febbraio 2012

Si chiama Mondo (Racconto)


“Grazie della penna. Lei va a Venezia per studio?”
Continuo a stupirmi di come il minimo tragitto possa rivelarsi intenso.
“Dovrebbe fare un viaggio simile. Non è poi impossibile, neanche oggi.”

Ho imprecato, stamattina, in stazione a Milano. Una volta che arrivo a bruciapelo e il treno lascia il binario in anticipo, neanche in orario. Regionali. Dovrei piantarla di meravigliarmi. Non sono Shinkansen giapponesi. Nemmeno ho idea di quando potrò fare davvero il paragone, di questo passo.

“Mio fratello ci ha vissuto un anno, io sei mesi. Ho rinunciato alla scrittura dopo i primi cento kanji. Ma ero scusato. Lei cosa fa?”
Rispondo, cortese. Devo avere un’insegna al neon, sopra la testa. “Orientalista Raccoglitrice di Racconti”.
Attiro chi ha a che fare con l’Asia Orientale, il Giappone, o anche solo con sprazzi di mondo. Il mio interlocutore sgrana gli occhi, ma non perché trovi la cosa strana. Più per affinità. Mi rilasso. Sono abituata ad altre reazioni, meno piacevoli. Vai a capire perché.

“Ho approfondito varie lingue. Il francese, ad esempio. Ha mai sentito di questo libro?”
Per tutto il tragitto, il volume che ho iniziato a leggere rimane a pagina 167, tra Marblehead e Salem, Massachusetts. Quello che l’uomo regge è un libro narrato da un giovane africano, naturalizzato francese. Interessante per il linguaggio, pare. Il fascino di una lingua originale. Non conosco quell’idioma, ma posso capire.

“Sia mia moglie che i miei figli, mio fratello e altri. Un po’ tutti ci siamo mossi in vari paesi.”
Qualcosa stride. Dove sia la famiglia originaria è una cosa che non riesco a definire. Qualcosa di impalpabile, mentre la confidenza del mio sconosciuto, il mio ospite, prosegue. Passiamo Brescia, Verona, Padova. Nei suoi occhi scorrono l’Australia, l’Indonesia, il Sud-est Asiatico risalito in anni incerti. Poi la Cina, il Giappone, gli Stati Uniti. Non fermiamoci sull’Europa, diamola per assunta. Conosco persone che mai ho incontrato.

“Son finito a lavorare anche a Marghera. Ho smesso da anni. Ora preferirei diventar scrittore.”
Di certo ha di che narrare, penso. Acquisterei un suo libro, se mi ricordassi il cognome. Ma credo lo riconoscerei in ogni caso. Dei racconti di viaggio. Posso dire di avere un grande sunto della sua opera, allora.
“Non intendo fermarmi, se possibile. Mai.”

Una vita in due ore. Non voglio interrompere, su di me minimizzo. Gli imprevisti del mattino sfumano in un bagaglio cosmopolita come pochi. Io sono ferma, seduta in treno. Al contempo, vengo portata all’altro capo del mondo dalle sue parole.

Non ricordo quando l’abbia detto. Di tutti i suoi racconti, ho memorizzato sprazzi. Dovrei imparare a segnarmi subito le cose che lasciano un segno.
“Basta capire che la nostra società, ormai, non è più Italia, Germania o Europa. Oggi si chiama Mondo.”
I miei viaggetti europei vengono ridotti a gite estemporanee, come pure quello a Shanghai. Ma non mi infastidisce. La mia prospettiva si allarga, per empatia e non solo. In fin dei conti, sono io quella grata. Nel pomeriggio andrò alla stanza da tè, a bere qualcosa in suo onore.

Perderei il treno altre cento volte, con un estraneo bardo accanto.

lunedì 28 novembre 2011

Io sono qui - Brainstorming (Proto-Racconto)

Alla partenza del treno, o si sale o si resta al binario. Sono di quelle occasioni che possono capitare cento volte quanto un’unica sola. Il treno ha fischiato – è Pirandello, no?
Sicché, al fischio risvegliante della realtà e all’incedere della vita, qualcuno non comprende se si trova a bordo, ancora alla stazione ad attendere o, chissà, appeso con un gancio fuori dal finestrino.
Giù il paraocchi.


Dove sono?

Il fronte della pioggia avanza compatto, sostenuto da cumuli neri sullo sfondo. Una barriera d’acqua, che corre su un campo di soia ormai rinsecchita. C’è una voce che richiama, da lontano, perché si rientri in casa. Il vento fa malanni, di quelli come questo temporale sembra stia tenendo in serbo. Non in croato, in serbo. Viene spontaneo iniziare a divagare sulle lingue da qualsiasi appiglio riesca a trovare. Non posso farci nulla. Chiamatela scelta di vita, studio a perdita di tempo, mezzo per arricchirsi facendo girare benignamente l’economia, scuola di preparazione al precariato. Quel che vi pare. Mi è indifferente, posso oscurare l’orgoglio.

Dove mi trovo?

La stazione è praticamente vuota. Il sole riflette sui binari sgombri, non ci sono che rimasugli di nubi. Era un’illusione? Inizio a dubitare della realtà dei miei ricordi. Se foste al mio posto, come vi comportereste?
Sfoglio le pagine con l’indice, seppure conosca già quella storia. Salirei su un treno qualsiasi, se potessi. Partirei. Sarei ovunque e da nessuna parte. Tecnicamente, anche solo via treno, da qui una persona può sperare di arrivare a Vladivostok. Poi, prendendo il traghetto, passare alle isole Curili, al Giappone. O all’Alaska.
La cosa straordinaria dello stringere in mano un libro appena concluso è il riuscire ancora a viaggiare a mente aperta. Nonostante la trama si sia diramata, in qualunque tematica affondasse radici, permette un’estensione intellettuale di almeno mezzora. Il quanto, in realtà, dipende dal singolo e dalla sua propensione al perdersi in altri mondi.
Per quanto mi riguarda, se avessi tempo e voglia rimarrei isolata dalla società per ore e ore, solo per concedermi questo piacere. Ma ho la routine da tenere in mano, non posso perdermi. Fantasticare inizia ad essere un lusso.

Dove sto andando?

Pur se inizialmente rinfrescata dal fortunale, la giornata si trasforma in calda e umida nel lasso di poche fermate. Scendendo al capolinea, lo sbalzo tra dentro la vettura e l’ambiente esterno è palese. Non ci bado.
La fiumana di gente si separa tra le calli più frequentate, affollando Calatrava e ponte degli Scalzi. Senza contare le code ai vaporetti.
Tra tutte le città, Venezia. Tenuto conto che non so nuotare, un risvolto poco intelligente.
Ripongo malvolentieri il libro, sapendo che fine farà. Presagendo la meta alla quale siamo diretti, è più probabile fare marcia indietro o cambiare il gioco. Uno dei motivi  per cui rifiuto l’idea di un cosiddetto “destino”, o un percorso prestabilito. Sostanzialmente è assurdo doverci pensare. Se parliamo di scelte di vita e conseguenze, posso farcela, o almeno credo. Capisco che prefissarsi un obiettivo sia naturale e necessario, seppure il suo conseguimento sia opinabile. Fortemente opinabile.
Ma per quanto creda ci possano essere dei segni sulle cose che siamo portati a fare, per quanto possa affidarmi alla fortuna, agli altri, a Dio, non chiedetemi di confidare ciecamente nella Provvidenza. Né oggi, né mai. Che poi ci sia un aiuto superiore per scalzare determinati ostacoli o schiarire la mente,quello è un altro discorso. Quello è affidamento, self-confidence, rientrare in sé stessi, avere un lato spirituale in cui porre la propria fede. Il Fato è una balla.
Continuando a pensarla così, aggiro solo la cosa. Come faccio a definire il mio obiettivo ultimo in questo modo? E soprattutto, è mai delineabile una cosa simile?

Gli altri sono. E io?

Lei voleva esser medico: al secondo anno di specializzazione per Chirurgia è rimasta incinta, il compagno l’ha abbandonata nel panico e nella consapevolezza di voler continuare per la propria strada. Ora vive dell’autoscuola ereditata dai genitori, convivente con i suoi gemelli e l’unica donna che abbia mai scoperto di amare. In qualche modo, dice, ha trovato un suo equilibrio.
Lui si definiva poco di buono: mandato fuori a calci in culo dalla maturità dopo due anni da ripetente, fumato, trasognante una vita da perdigiorno; ha finito per approdare ad architettura e design, laureato con ottimi voti. Gli hanno affidato, alcuni mesi fa, il rinnovamento di una serie di costruzioni fuori Napoli. Ha già ricevuto lettere minatorie da qualche clan camorristico, ma pare non farci caso.
Chi sono io per definire il mio futuro a priori? I progetti, le ambizioni, le prospettive, persino la scelta di arrendersi. Qualsiasi cosa può essere spazzata via con una folata di vento. Lavoro intanto con quello che ho in mano, per  vedere se almeno, questo fantomatico futuro, lo posso costruire un po’ a modo mio.
Posso sperare, forse, di avere uno spettro di sviluppo d’ampio respiro, finché non mi troverò soffocata. E anche quello accadesse, probabilmente ritenterei per la stessa via o lungo qualche alternativa valida. Tutti sono consapevoli, a partire da un distinto momento della propria vita, di non “stare” e basta. Anche non avendo la più pallida idea di quel che la società riservi per loro, azzardano una delle tante opzioni che, siamo onesti, sono sempre disposte a ventaglio davanti agli occhi. Che poi si sia ciechi di fronte ad alcune…
Questo è un passaggio di definizione: dallo Stare puro e crudo, inconsapevole nonostante tutto, si vira bruscamente all’Esistere, l’Essere finalmente qualche cosa, anche se non sapremmo mai spiegare esattamente cosa. Non che sia un cammino semplice. Di frequente, il mondo è così avverso alle nuove Esistenze che finisce per soffocarne la voce, nel tentativo, di principio vano, di recarvi danno.
Digrigno i denti, percependo una fitta dentro la cassa toracica. Fa così da anni, ormai. Come se i polmoni urlassero per l’assenza di grida mie effettive. Come se stessero soffocando della loro stessa aria repressa.
Prima o poi, si finisce almeno una volta in gabbia, in fondo.

Io sono qui.

Lo stabilire un luogo preciso incorre in diverse limitazioni. Per definizione, non perché lo dica io. Ma già il riconoscere di essere arrivati a una tappa di un certo percorso, sia essa il capolinea o un tratto d’intercambio, come pure una fermata alla quale non siamo diretti, crea una consapevolezza indescrivibile.
Io esisto. Io sono. E non in un punto incerto e imperscrutabile dello spazio. Con tutti i miei dubbi, le mie divagazioni, i pensieri che a fiotti scorrono e si accavallano tra le mie terminazioni nervose e la mia anima.
Non avete mai provato a fare il punto della situazione? Ci si arriva. Giovani o meno, non c’è un’età. Si può raggiungere un caposaldo, per quanto innocuo, a tredici come a sessantatre anni. Senza presunzione, solo per assunto. Un momento di perfetta chiarezza che non si può esplicare a parole.
Potremmo non sapere cosa fare della nostra vita. Potremmo attenerci all’immaginazione per ricreare attimi che avremmo voluto diversi, o per reinventare il futuro. Potremmo anche delineare perfettamente il nostro percorso da quell’attimo in poi. L’unica cosa certa è quel che è stato, oltre che quel che è.
Io sono. Io esisto. Hic et nunc. E, almeno per un po’, di certo sarò.
Proseguo a piedi. Molti prenderebbero il vaporetto, nella prospettiva di dover camminare quaranta minuti abbondanti per attraversare mezza città. Nonsense.
Oltrepasso gli ultimi gradini dell’ennesimo ponte, scartando bruscamente nella direzione designata mentalmente in treno. So che è un parco frequentato in determinate ore della giornata, quello in cui mi inoltro. Inizio a sfilare il libro dalla borsa, prima di accomodarmi sul bordo di una panchina.
Fisso la copertina. Non ho idea del perché lo faccia. Ho sentito dire che più di qualcuno abbandona, per così dire, determinati libri sulle panchine, sul treno, sugli autobus. L’intento è di far girare quella storia, gratuitamente, perché passi di mano in mano, da immaginario a immaginario, macinando pagine davanti agli occhi di ciascun lettore occasionale. Ciascuno, poi, aggiunge la propria firma alla lista preesistente nella quarta e lo affida a un luogo. Io ho trovato questo nel portaoggetti del regionale che cinque giorni su sette mi ospita. La carrozza era vuota e il poveretto vagava inerte sulla grata. Aprendolo, ho scoperto di che si trattava. Il precedente lettore non ha una gran bella calligrafia – ancora sono incerta se si chiami Giorgio o Sergio. Il meccanismo, in fondo, mi piace. Pare quasi che una volta messo il mio nome su quelle pagine io possa andare ovunque e comunque, passando di mano in mano a qualsivoglia lettore decida di raccogliere la sfida come io stessa ho fatto.
Provo un moto d’affetto verso la maggior parte di ciò che sfioro o che, anche per breve tempo, ha un legame con me. Can’t help it. La connessione anche con le piccole cose fa sentire più veri, più vivi. Il passaggio per un luogo, per una sciarada di emozioni, per una compagnia: sono tutti generi di viaggio. E come tali, ogni loro parte può ottenere tutto un archivio di simboli, dal quale ripescare pensieri e ricordi, come impressioni, sensazioni e persone. Rimuginare su questo insieme di fogli scritti, con un suo percorso e una sua silenziosa meta variabile, rende il tutto ancora più interessante, poiché l’oggetto a me appartenuto in breve è al contempo di una miriade d’altre persone, di transito in chissà quanti “qui ed ora”. Ciascun suo possessore è ovunque, comunque, in una parte di Mondo.
Aspetto che passi una coppia di studenti, poi appoggio il volume, neanche tanto spesso, sul ferro verde. Riprendo la mia strada. Salgo a bordo.
Io sono qui.

Ma questo è il posto che mi piace, si chiama Mondo.(cfr.)

Le Voci di Shanghai (Racconto)

Mi stringo al sedile dell’aereo. Non è la prima volta che mi trovo a sorvolare territori e città da un punto invidiabile. Di certo, tuttavia, questa è la destinazione più lontana che abbia mai dovuto raggiungere, logisticamente e spiritualmente parlando. No, non ho sbagliato a usare i termini. Mi ero preparata, prima o poi, ad andarmene in Asia Orientale – non studio Giapponese per nulla, vero? Quel che mi ha lasciato perplessa è l’aver raggiunto prima la Cina. Strana la vita.

Sono dovuta arrivare quasi dall’altra parte del mondo per rendermi conto di così tante cose, che non saprei da dove iniziare. È stata una lavata a freddo, essere catapultata in una nuova realtà. La Cina è e rimane il fulcro potenziale dell’Asia, contrapposta a quell’essere Occidente che può essere un’Unione Europea o un’America. È facile pensare di passare ad una vita ormai globalizzata. Se si capitasse in Giappone, si potrebbe avere una sorta di via di mezzo tra Oriente e Occidente – la storia ne parla per noi. Ma arrivare a Shanghai e trovarsi in una metropoli dalle mille concezioni è un bel dire.

Percorro le strade alienata, insieme al gruppo di giovani con cui mi son ritrovata a condividere una magnifica esperienza. Vedo quartieri d’alto rango, vedo enormi Skyscrapers, posso toccare con mano ciò che negli ultimi anni ha lasciato senza parole l’economia mondiale, questa sete e fame di un posto nel mondo molto più avanzato rispetto a quanto si potrebbe immaginare. Dietro l’angolo, una voce mi sussurra che sui canali i bassi ranghi esistono.

Sì. È il progresso. Una corsa sfrenata per raggiungere ciò che di meglio si sia mai potuto anche lontanamente immaginare. Palazzi di vetro, acciaio e plexiglass svettano nello smog serale, le mille luci che allibiscono ogni qual volta ci si ritrova ad esserne circondati. Vita, vita affrettata, taxi che sfrecciano in folle, mentre stormi di bici arrivano a tagliare la strada, semaforo o no. Non una stella – non una, e se credete di intravederne è un satellite – che puntelli le nubi industriali ad alta quota. Frenesia.
…Da dove arriva la voce?

Le luci di Shanghai stregano, ammaliano. Il Bund risuona dello sfarzo dovuto a chi vi trascorre una, due, cento sere. Tutto questo è l’avanzamento, le infrastrutture che sorgono ad occupare quelle minime frazioni di spazio vitale, a supplire qualcosa che ancora non c’è con la costruzione di una garanzia promettente, invitante, che non può far altro che parlare da sé. La Garanzia…L’urlo dipanato dalle pareti in vetro, unito allo stesso lanciato da quella zona di “Città Vecchia” dedicata in esclusiva ai Turisti è forte e chiaro: vogliamo avere le carte in regola, più considerazione. Abbiamo bisogno di arrivare in alto per poter partire. Aneliamo quel vostro voto a dire, finalmente e in piena fede, “La Cina può farcela”, “è una Nazione del terzo millennio!”, “ha superato chiunque”. Chiunque, sé stessa e la sua gente in primo luogo. Grande sentimento nazionale, radici espiantate dalla rivoluzione culturale – ma sempre presenti, immancabilmente, o almeno così pare. Ci vuol niente a giocarci sopra per un’immagine posticcia rispettabile. Là in fondo, un’Expo da mille e un quartiere – Dio solo sa che cosa ne sarà dopo tutto lo sfarzo sfoggiato con orgoglio dalle nazioni per la popolazione; in centro, l’enorme manifesto della Cina, rosso e rigonfio delle potenzialità, dei sogni e dei ricordi di una popolazione. Da qualsiasi parte ci si giri, in mezzo al tripudio di Paesi ospiti, si respira un’Esposizione universale da record, molto differente dalle altre. Tutta per loro, tutta dei cinesi.

Ogni nucleo familiare ha un proprio biglietto d’ingresso alla Città nella Città – quella meraviglia che trascina ingenti porzioni di mondo in un unico luogo – ricevuto grazie alle direttive di stato. Tutti i cinesi possono accorrere ad assediare i Padiglioni, nella frenesia Culturale che li attornia. Può anche darsi che tu viva del tuo carretto, di ciò che vi friggi sopra, al margine del marciapiede – un passo dalle fogne, il legno tarlato del ripiano come tuo giaciglio. Avrai il tuo biglietto. È la tua assicurazione, pungente tanto quanto l’odore che si propaga dalla griglia bisunta, il lasciapassare per il futuro e il palcoscenico globale. Continua a far andare baracca e burattini, questo è il debutto che tutti aspettavano. Se il tuo presente non è roseo, lavora per tuo figlio, quell’unica creatura che nello studio può forse risollevarti, in vecchiaia, grazie proprio alla tua scommessa fatta in partenza. Voci, tante voci…

In mezzo ai palazzi imponenti, fuori dai padiglioni, ho modo di appropriarmi di quel che cercavo. Anche se, a dirla tutta, finché non l’ho avuto di fronte agli occhi non avrei mai detto che potesse essere questo il mio obiettivo. Tutto funziona, la dissidenza non si vede neanche col lanternino, e le condizioni sembrano nazionalmente accettate. Perché, se ci si sofferma così tanto su quel che è il presente, come si potrà mai raggiungere il futuro? Un passato in recupero può anche andare, una riscoperta d’identità millenaria, seppure in chiave nettamente diversa rispetto alla cosiddetta tradizione. La mattina noto, con la coda dell’occhio, un gruppo che si muove sinuosamente, in uno spiazzo seminascosto, andando verso la periferia. Cala il sipario, cambio scena. Nuove voci, ben poco recenti.

La vera Città Vecchia di Shanghai, non quella per gli stranieri, giammai tirata a lucido, aspetta dietro l’angolo. Muri, residui, templi sopravvissuti, casupole, frammenti d’umanità. Un sussurro tenace che si appiglia a ciò che è rimasto del tempo che fu, guardando i grattacieli lontani e offuscati, sognante, mentre cerca di tener in piedi quel che ha. Una voce d’orgoglio che la fa in barba ai pregiudizi di chi non sa cosa significhi la vita nei suoi meandri. Ogni oggetto, ogni possessione è trattabile con un po’ d’astuzia – la logica di mercato è intrinseca a chi non pensa lontanamente di averla anche toccata. La vita stessa, nel desiderio di arrivare a quell’inesistente classe media, può essere il gioco che vale la candela. Una pedina da sfruttare con arguzia.

Cammino sul marciapiede, senza ancora aver compreso a fondo tutto quel che è passato attraverso di me, come chi che m’è transitato al fianco, lungo la via. Sento suoni ancora estranei per il mio senso della lingua, ma la cui intensità pare trasmettermi messaggi ed emozioni note. Lontane, certo, eppure vagamente familiari, nella loro supposta stravaganza. Pochi giorni, non sufficienti per un’unione completa – ma con un segno decisamente indelebile.

Zhōngguó. Un gigante, da un miliardo e trecento milioni di voci, dalla pietra della muraglia alle venature del sud.
Diciotto milioni di grida che avanzano solo dalla Regina d’Oriente.


(Racconto 1° Classificato alla prima edizione de "L'emozione del Viaggio", premio Sparkasse - 2010)