lunedì 28 novembre 2011

Io sono qui - Brainstorming (Proto-Racconto)

Alla partenza del treno, o si sale o si resta al binario. Sono di quelle occasioni che possono capitare cento volte quanto un’unica sola. Il treno ha fischiato – è Pirandello, no?
Sicché, al fischio risvegliante della realtà e all’incedere della vita, qualcuno non comprende se si trova a bordo, ancora alla stazione ad attendere o, chissà, appeso con un gancio fuori dal finestrino.
Giù il paraocchi.


Dove sono?

Il fronte della pioggia avanza compatto, sostenuto da cumuli neri sullo sfondo. Una barriera d’acqua, che corre su un campo di soia ormai rinsecchita. C’è una voce che richiama, da lontano, perché si rientri in casa. Il vento fa malanni, di quelli come questo temporale sembra stia tenendo in serbo. Non in croato, in serbo. Viene spontaneo iniziare a divagare sulle lingue da qualsiasi appiglio riesca a trovare. Non posso farci nulla. Chiamatela scelta di vita, studio a perdita di tempo, mezzo per arricchirsi facendo girare benignamente l’economia, scuola di preparazione al precariato. Quel che vi pare. Mi è indifferente, posso oscurare l’orgoglio.

Dove mi trovo?

La stazione è praticamente vuota. Il sole riflette sui binari sgombri, non ci sono che rimasugli di nubi. Era un’illusione? Inizio a dubitare della realtà dei miei ricordi. Se foste al mio posto, come vi comportereste?
Sfoglio le pagine con l’indice, seppure conosca già quella storia. Salirei su un treno qualsiasi, se potessi. Partirei. Sarei ovunque e da nessuna parte. Tecnicamente, anche solo via treno, da qui una persona può sperare di arrivare a Vladivostok. Poi, prendendo il traghetto, passare alle isole Curili, al Giappone. O all’Alaska.
La cosa straordinaria dello stringere in mano un libro appena concluso è il riuscire ancora a viaggiare a mente aperta. Nonostante la trama si sia diramata, in qualunque tematica affondasse radici, permette un’estensione intellettuale di almeno mezzora. Il quanto, in realtà, dipende dal singolo e dalla sua propensione al perdersi in altri mondi.
Per quanto mi riguarda, se avessi tempo e voglia rimarrei isolata dalla società per ore e ore, solo per concedermi questo piacere. Ma ho la routine da tenere in mano, non posso perdermi. Fantasticare inizia ad essere un lusso.

Dove sto andando?

Pur se inizialmente rinfrescata dal fortunale, la giornata si trasforma in calda e umida nel lasso di poche fermate. Scendendo al capolinea, lo sbalzo tra dentro la vettura e l’ambiente esterno è palese. Non ci bado.
La fiumana di gente si separa tra le calli più frequentate, affollando Calatrava e ponte degli Scalzi. Senza contare le code ai vaporetti.
Tra tutte le città, Venezia. Tenuto conto che non so nuotare, un risvolto poco intelligente.
Ripongo malvolentieri il libro, sapendo che fine farà. Presagendo la meta alla quale siamo diretti, è più probabile fare marcia indietro o cambiare il gioco. Uno dei motivi  per cui rifiuto l’idea di un cosiddetto “destino”, o un percorso prestabilito. Sostanzialmente è assurdo doverci pensare. Se parliamo di scelte di vita e conseguenze, posso farcela, o almeno credo. Capisco che prefissarsi un obiettivo sia naturale e necessario, seppure il suo conseguimento sia opinabile. Fortemente opinabile.
Ma per quanto creda ci possano essere dei segni sulle cose che siamo portati a fare, per quanto possa affidarmi alla fortuna, agli altri, a Dio, non chiedetemi di confidare ciecamente nella Provvidenza. Né oggi, né mai. Che poi ci sia un aiuto superiore per scalzare determinati ostacoli o schiarire la mente,quello è un altro discorso. Quello è affidamento, self-confidence, rientrare in sé stessi, avere un lato spirituale in cui porre la propria fede. Il Fato è una balla.
Continuando a pensarla così, aggiro solo la cosa. Come faccio a definire il mio obiettivo ultimo in questo modo? E soprattutto, è mai delineabile una cosa simile?

Gli altri sono. E io?

Lei voleva esser medico: al secondo anno di specializzazione per Chirurgia è rimasta incinta, il compagno l’ha abbandonata nel panico e nella consapevolezza di voler continuare per la propria strada. Ora vive dell’autoscuola ereditata dai genitori, convivente con i suoi gemelli e l’unica donna che abbia mai scoperto di amare. In qualche modo, dice, ha trovato un suo equilibrio.
Lui si definiva poco di buono: mandato fuori a calci in culo dalla maturità dopo due anni da ripetente, fumato, trasognante una vita da perdigiorno; ha finito per approdare ad architettura e design, laureato con ottimi voti. Gli hanno affidato, alcuni mesi fa, il rinnovamento di una serie di costruzioni fuori Napoli. Ha già ricevuto lettere minatorie da qualche clan camorristico, ma pare non farci caso.
Chi sono io per definire il mio futuro a priori? I progetti, le ambizioni, le prospettive, persino la scelta di arrendersi. Qualsiasi cosa può essere spazzata via con una folata di vento. Lavoro intanto con quello che ho in mano, per  vedere se almeno, questo fantomatico futuro, lo posso costruire un po’ a modo mio.
Posso sperare, forse, di avere uno spettro di sviluppo d’ampio respiro, finché non mi troverò soffocata. E anche quello accadesse, probabilmente ritenterei per la stessa via o lungo qualche alternativa valida. Tutti sono consapevoli, a partire da un distinto momento della propria vita, di non “stare” e basta. Anche non avendo la più pallida idea di quel che la società riservi per loro, azzardano una delle tante opzioni che, siamo onesti, sono sempre disposte a ventaglio davanti agli occhi. Che poi si sia ciechi di fronte ad alcune…
Questo è un passaggio di definizione: dallo Stare puro e crudo, inconsapevole nonostante tutto, si vira bruscamente all’Esistere, l’Essere finalmente qualche cosa, anche se non sapremmo mai spiegare esattamente cosa. Non che sia un cammino semplice. Di frequente, il mondo è così avverso alle nuove Esistenze che finisce per soffocarne la voce, nel tentativo, di principio vano, di recarvi danno.
Digrigno i denti, percependo una fitta dentro la cassa toracica. Fa così da anni, ormai. Come se i polmoni urlassero per l’assenza di grida mie effettive. Come se stessero soffocando della loro stessa aria repressa.
Prima o poi, si finisce almeno una volta in gabbia, in fondo.

Io sono qui.

Lo stabilire un luogo preciso incorre in diverse limitazioni. Per definizione, non perché lo dica io. Ma già il riconoscere di essere arrivati a una tappa di un certo percorso, sia essa il capolinea o un tratto d’intercambio, come pure una fermata alla quale non siamo diretti, crea una consapevolezza indescrivibile.
Io esisto. Io sono. E non in un punto incerto e imperscrutabile dello spazio. Con tutti i miei dubbi, le mie divagazioni, i pensieri che a fiotti scorrono e si accavallano tra le mie terminazioni nervose e la mia anima.
Non avete mai provato a fare il punto della situazione? Ci si arriva. Giovani o meno, non c’è un’età. Si può raggiungere un caposaldo, per quanto innocuo, a tredici come a sessantatre anni. Senza presunzione, solo per assunto. Un momento di perfetta chiarezza che non si può esplicare a parole.
Potremmo non sapere cosa fare della nostra vita. Potremmo attenerci all’immaginazione per ricreare attimi che avremmo voluto diversi, o per reinventare il futuro. Potremmo anche delineare perfettamente il nostro percorso da quell’attimo in poi. L’unica cosa certa è quel che è stato, oltre che quel che è.
Io sono. Io esisto. Hic et nunc. E, almeno per un po’, di certo sarò.
Proseguo a piedi. Molti prenderebbero il vaporetto, nella prospettiva di dover camminare quaranta minuti abbondanti per attraversare mezza città. Nonsense.
Oltrepasso gli ultimi gradini dell’ennesimo ponte, scartando bruscamente nella direzione designata mentalmente in treno. So che è un parco frequentato in determinate ore della giornata, quello in cui mi inoltro. Inizio a sfilare il libro dalla borsa, prima di accomodarmi sul bordo di una panchina.
Fisso la copertina. Non ho idea del perché lo faccia. Ho sentito dire che più di qualcuno abbandona, per così dire, determinati libri sulle panchine, sul treno, sugli autobus. L’intento è di far girare quella storia, gratuitamente, perché passi di mano in mano, da immaginario a immaginario, macinando pagine davanti agli occhi di ciascun lettore occasionale. Ciascuno, poi, aggiunge la propria firma alla lista preesistente nella quarta e lo affida a un luogo. Io ho trovato questo nel portaoggetti del regionale che cinque giorni su sette mi ospita. La carrozza era vuota e il poveretto vagava inerte sulla grata. Aprendolo, ho scoperto di che si trattava. Il precedente lettore non ha una gran bella calligrafia – ancora sono incerta se si chiami Giorgio o Sergio. Il meccanismo, in fondo, mi piace. Pare quasi che una volta messo il mio nome su quelle pagine io possa andare ovunque e comunque, passando di mano in mano a qualsivoglia lettore decida di raccogliere la sfida come io stessa ho fatto.
Provo un moto d’affetto verso la maggior parte di ciò che sfioro o che, anche per breve tempo, ha un legame con me. Can’t help it. La connessione anche con le piccole cose fa sentire più veri, più vivi. Il passaggio per un luogo, per una sciarada di emozioni, per una compagnia: sono tutti generi di viaggio. E come tali, ogni loro parte può ottenere tutto un archivio di simboli, dal quale ripescare pensieri e ricordi, come impressioni, sensazioni e persone. Rimuginare su questo insieme di fogli scritti, con un suo percorso e una sua silenziosa meta variabile, rende il tutto ancora più interessante, poiché l’oggetto a me appartenuto in breve è al contempo di una miriade d’altre persone, di transito in chissà quanti “qui ed ora”. Ciascun suo possessore è ovunque, comunque, in una parte di Mondo.
Aspetto che passi una coppia di studenti, poi appoggio il volume, neanche tanto spesso, sul ferro verde. Riprendo la mia strada. Salgo a bordo.
Io sono qui.

Ma questo è il posto che mi piace, si chiama Mondo.(cfr.)

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